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Più che altro ho imparato …

Quando andavo ad arrampicare ho imparato come fosse importante “fare sicurezza” all’altro, con la corda. Saper stare in attesa, sentire la leggera pressione del cavo, che sfugge o scorre tra le dita. Sei tu quella che deve stare attenta, se l’altro perdesse un appiglio, avresti il compito di tenere … 

Più ancora che la filosofia della roccia ho imparato il “tenere”.

Quando mi hanno insegnato ad andare in moto, mi hanno spiegato che l’unica carrozzeria che mi avrebbe protetto era la mia pelle, tendini, muscoli, ossa. Che gli altri non mi avrebbero visto, ma io avrei dovuto avere occhi, doppi e quadrupli sulle strade. Più che a guidare ho imparato a “guardare”.

Quando ho facevo la pendolare (almeno 2 ore al gg di viaggio) ho imparato l’arroganza della mia macchina, così potente e grossa, e com’era facile fare la milanese “imbruttita e incattivita”. Poi é arrivata la tenerezza della strada, e sono state quelle di campagna ad insegnarmi che potevo esser io l’invasore, laddove gatti, leprotti, nutrie e cinghiali avessero voluto seguire le proprie vie, su quella terra che è di tutti noi.                                 E ho imparato a esser “ospite”.

Quando faccio la pedone ho imparato il timore animale rispetto alle strisce di attraversamento, di nuovo la mia carrozzeria fragile è fatta di pelle e tendini, così per attraversare devo indossare la faccia cattiva, rivendicando anche il mio diritto al territorio. In questo modo invece ho capito cosa passava tra l’esser “preda” o sopravvivere.

Per tutta la vita, la vita mi ha insegnato attenzione e cura, per me e per gli altri.

Per due mesi ho respirato sospesa, ho risentito le voci degli uccelli, ho provato infinta tenerezza per noi umani, chiusi e spaventati nelle case, pensando che stavamo imparando tutti, ad ascoltare le mani, l’attesa della corda, lo sguardo della lepre, il vibrare dei tendini, la cura e la protezione.  Due giorni dopo il lockdown abbiamo già smesso. Per ora sento ancora gli uccelli cantare, mi rattristo e consolo insieme.

Fra qualche giorno smetteranno, zittiti da noi, invasori del nostro stesso mondo, senza nemmeno saperlo. 

Ho imparato tanto. 

Non so dove depositare il sapere, vorrei lasciarlo a noi tutti, donne e uomini, capaci di tenerezza per il mondo, verso la pelle e le nostre ossa.


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Ricominciamo da qui?

Ne abbiamo parlato, ultimamente.

È stato una riflessione breve, ma ne siamo siamo state convinte – noi del circuito blogger dal 2007 in poi – che i social (da faccialibro in poi) abbiano tolto qualcosa alla scrittura pensata che praticavamo e a quella che lascia un segno.

Scrivere poi nella fattispecie è anche dare un nome alle cose, che poi non possono più essere dimenticate, come dice Linneo.

I social virali ma effimeri ci hanno consegnato (noi ci siamo lasciati abbandonare) ai like, alla velocità, alla scrittura di pancia, e poi sempre più sgomenti alla reazione emozione che cresce insieme alla furia, all’odio, all’insensatezza di qualcuno.

Non era quello che avevamo iniziato.

Era già finita la stagione dei blog?

Io torno qui.

Per la scrittura pubblica personale. E per quella pubblica professionale.


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educhiamo uomini migliori

In effetti avrei potuto scriverlo sul blog di lavoro, questo post.

Ma mi sarebbe costata una faticaccia bestiale, perché non avrei potuto scrivere le cose semplici, e magari come mi vengono, a pancia; ci avrei dovuto trovare come minimo una bibliografia, fare ricerca, documentare ogni pensiero. Ma qui sono un po’ a casa e mi gioco i pensieri com migliore leggerezza.

Perciò estraggo il povero blog, impolverato, e ci metto dentro qualcosa in fretta e furia.  Scrivo a raffica, e quindi  ci lascio gli errori, ma i pensieri che mi guidano non sono poi così casuali o poco curati.

Eggià. Ho messo in fila, di recente, le storie di un tot di uomini (amici maschi/conoscenti/vicini etc) che si sono ritrovati alle prese con le classiche crisi di coppia e separazioni; alcuni in virtù di una serie di vincoli, di lavoro, mutui, figli, impegni, doveri si tengono moglie e soprattutto i cuori spezzati. Si sentono tristi, poco o male amati. Alcuni non vogliono o ne sanno parlare, non capiscono come trovare la soluzione per stare meglio insieme.

Eggià. Che poi è strano pensare che (anche) loro, in un dialogo sull’amore che si perde nella complessità del mondo veloce che ci tocca, hanno bisogno di amore.

La faccenda che (anche) loro si perdono nell’amore sarà pur vera, viste le tante canzoni di amore che scrivono. Gli uomini, i cantautori, i rocker, i musicisti. Com’è che ne scrivono tanto bene, trovando le note che toccano il cuore? E poi, davanti alla realtà vera, alla vita vissuta si impiastrano nei peggiori casini.

A volte si ammalano persino d’amore, almeno così si raccontano, per sogni e desideri non corrisposti. A volte mettono una sorta di pezza, e si impegnano in storie extraconiugali, assai spericolate, ma alla fine sono incasinati perché hanno ancora il cuore in briciole.

Ma nessuno glielo ha mai spiegato? Che va bene, che si può avere il cuore in briciole, o polverizzato in frammenti infinitesimali di vetro, non più ricomponibili e che si può esigere di più dall’amore, ma anche che non c’è obbligo di restare impegnati in storie irrealistiche, aspettando eternamente che la ranocchia diventi principessa.

Ti raccontano che l’amore è sacro, o che la moglie ne avrebbe il cuore spezzato (dal divorzio), o che non sarebbe capace di vivere senza di lui, o quanto meno non saprebbe cavarsela senza con il suo simulacro: un cognome da donna sposata.

Ti fanno vedere come preferiscano esser loro con il cuore spezzato che non lei, sono loro a trascinarsi in storie tristi e sofferenti, malandate,  fuggendo a tratti in scarne vie di fuga. Che le principesse mogli/fidanzate sono fragili.

Davvero?

Ma le statistiche non dicono che sono le donne ad essere più brave a lasciare, a imparare a cavarsela da sole, a vivere nonostante. A rivendicare il diritto ad un amore decente?

Allora questi che sono gli uomini migliori, visto che i peggiori sono quelli che ammazzano le compagne, perché hanno una visione dell’amore come fatto di proprietà, devono imparare anche a saper stare soli e scegliere di dare valore a se stessi e al proprio bisogno di amore. Non è questo il nuovo patto sociale? Abbiamo la possibilità di sceglierci, di amarci, di stare insieme, di tentare di dare dignità e valore all’amore scelto, di salvaguardarlo e di declinare se il patto non funziona, ma abbiamo bisogno di imparare a farlo, uomini e donne, allo stesso modo, senza barare; anche se con i sentimenti è un bel pasticcio.

Eggià. Bisogna che questi uomini pur sappiano che (anche) alcune donne amano male, alcune (ancora) si si sposano per spuntare la checklist, o per il gene egoista, o perché insieme è meglio che sperimentarsi a stare da sole, perché meglio avere i figli e un abito bianco ad ogni costo, fa status sociale.

Poi c’è sempre quello che si distingue, vuoi perché fa il triplo salto mortale carpiato e trasforma una crisi in una possibilità e allora tu vedi quelle belle coppie, che brillano e illuminano. E sai che a volte la fortuna dell’amore si costruisce insieme, anche riconquistandosi tra i cocci. E ci sono le perle rare che chiudono un matrimonio/convivenza senza amore, e accettano di pagarne tutti i costi; senza nemmeno usare la scusa di una amante che fa premura (diciamocelo che questa dell’amante scaccia moglie) non è una strategia particolarmente simpatica o brillante.  Avete idea del casino? Cambiare casa, smazzarsi la faccenda di soldi, lavoro, mantenimenti, avvocati, scazzi,  figli in crisi, genitorialità da rimettere insieme? Niente di straordinario, diranno le donne, si fa sempre così: infatti si dovrebbe fare così.

Forse la capacità di amare che abbiamo in dote, è capacità di cura dell’altro, della relazione, e dell’amore su un piano di parità e a partire dalla capacità di cura e amore che dobbiamo a noi stessi. Uomini e donne che siamo.

Ma pare che ci voglia un po’ di scuola per impararlo.