Una riflessione a scavalco tra più pensieri, connessioni, e anime; uno l’ho espresso nell’altro mio blog “pedagogico” e l’altro tenterei di focalizzarlo più avanti,
da Ponti e Derive
“Giusto ieri mi stavo chiedendo come un cambiamento nelle passi di cura, accudimento ed educazione dei figli da parte dei “nuovi” padri sfonderà lo scenario culturale odierno, mettendo in asse di parità il valore della maternità e della paternità, e assumendone di nuovi: interscambiabilità dei ruoli, valorizzazione delle differenze.
Chissà se il “materno” verrà liberato dal monito della perfezione, dalla cura onnipresente e onnipotente, liberando le madri dalla cura totale ed eterna dei figli, circoscrivendone il ruolo specifico ai mesi della gravidanza e dell’allattamento, ma liberando il valore di tutti gli altri saperi che una donna può offrire ai propri figli. Chissà se i padri liberati dal “paterno” (con il ruolo di colui che deve offrire il supporto economico e le regole), accederanno alla propria capacità di cura in senso complessivo. Chissà se i figli di questo cambiamento, già in atto, offriranno alla cultura e alla società che abiteranno e produrrano, un modo diffrente di interpretare non solo la genitorialità ma anche il loro essere uomini e donne.”
Una madrina di eccellenza e portatrice di un pensiero molto dirimente è Lea Melandri per ciò che scrive in “corpo d’amore”:
rilettura della “differenza femminile” in chiave di positività, abbandono dell’analisi del dualismo sessuale inteso come l’esito di una differenziazione originaria che ha radici nello psichismo profondo.
Le acque, per così dire, tornavano a separarsi: le donne si riconoscevano un’appartenenza e un primato nell’“ordine simbolico della madre”, una genealogia, una tradizione e una lingua propria. L’incontro con l’uomo andava ripatteggiato sulla base di “differenze” irriducibili. […]
Nel momento in cui prevaleva nel femminismo l’orgoglio dell’appartenenza di sesso, la voglia di “vivere con agio”, l’affermazione della fine del patriarcato, occuparsi del sogno d’amore – dal libro che stavo scrivendo alle rubriche di posta del cuore su “Ragazza In” e su “Noi donne” – fu visto da alcune come un tornare sulla “miseria femminile”. Per me ha voluto dire invece riprendere e approfondire l’intuizione originale del femminismo: il dualismo sessuale, la consapevolezza che le figure di genere non hanno dato forma solo a rapporti e gerarchie di potere tra uomini e donne, ma, come conseguenza della complementarità, anche all’amore tra i sessi, al sogno di ricongiungimento di “nature”diverse, e all’ideale di interezza dell’individuo. […]
A partire della metà dell’ultimo decennio, a farmi tornare sul tema dell’amore sono stati i dati allarmanti sugli omicidi famigliari e, per un altro verso, la valorizzazione delle “doti femminili” in ambito pubblico, il “valore aggiunto” di cui avrebbe bisogno l’economia, la produzione, l’industria dello spettacolo e la società in generale.
E’ come se il sogno d’amore fosse uscito dal rapporto di coppia e andasse a ridare fiato a una civiltà sempre più sterile e distruttiva.
Nelle discussioni e nelle iniziative che sono nate intorno agli omicidi domestici, l’amore non è mai nominato. Eppure è evidente che c’entra. La violenza scoppia all’interno dei rapporti più intimi e per mano di mariti, amanti, padri, fratelli. Ma per i media è sempre “inspiegabile” e “insospettabile”. L’uomo si accanisce sul corpo che l’ha generato, che gli ha dato le prime cure e sollecitazioni sessuali, e che incontra nella sua vita amorosa. La violenza si annida dunque, come elemento nascosto, “perturbante” – nella definizione di Freud –, di ciò che è a noi più noto e famigliare.
Al femminismo è mancata l’analisi della coppia, della famiglia, degli effetti devastanti che ha il prolungamento dell’amore nella sua forma originaria -fusione di due esseri in uno- nella vita adulta. Non si è ragionato a fondo su quanto l’aggressività sia legata alla dipendenza, al potere di indispensabilità di una madre-moglie, all’illusione maschile di libertà, all’infantilizzazione dei rapporti in ambito famigliare. Di qui la violenza di chi non sopporta la perdita di una posizione di dominio e di sicurezza che gli era sembrato garantita per legge naturale.
Pierre Bourdieu, nel suo libro Il dominio maschile, dedica l’ultimo capitolo all’amore. Si chiede se il vissuto singolare di smarrimento nell’altro, appartenenza intima a un altro essere, possa considerarsi “una tregua” alla guerra tra i sessi o piuttosto la forma suprema, perché la più subdola, la più invisibile, della violenza simbolica. Fissando la donna nel ruolo di madre, l’esperienza dell’indistinzione originaria è inevitabile che si ripresenti immaginariamente e che venga sentita come una minaccia per la libertà dell’individuo. Ma, soprattutto, impedisce che l’amore diventi l’incontro tra due individui, due desideri, rispetto al quale la memoria dell’originaria unità a due potrebbe essere solo un elemento di tenerezza che si aggiunge.
(Le sottilineature sono mie)
Il testo della Melandri, mi da modo di prendere aria, un respiro, laddove la questione del nuovo femminismo e la lotta verso il maschile violento sta assumendo contorni assai potenti e parzializzati; nei quali, per formazione professionale e personale, non riesco pienamente a riconoscermi. Lo vedo e so che è necessaia che vi sia una dimensione di rivendicazione di base, legittimamente di base, che per resistere ed agire deve abdicare almeno parte all’esercizio del dubbio, (pena la perdita di una certa efficacia), delle differenziazioni, dei distinguo e di una quantità di domande.
Dubbi, differenziazioni, domande, contraddizioni che invece non posso negare al mio pensiero.
Provo a tratteggiare alcuni punti…
Il ruolo del materno, si sta riproponendo con potenza, a partire dallo scenario del web. Un materno spesso assoluto e decisivo, perturbante nel suo rappresentare l’epifania della maternità, mentre nella quotidianità il paterno nuovo cerca di farsi strada. Come dice Lea Melandri, se oggi “l’incontro con l’uomo” va “ripatteggiato sulla base di differenze irriducibili.” questo spazio di mutamento tra uomini e donne non può che essere negato. E mentre avviene l’estensione del materno (spesso sotto forma di madre mediatica e consumistica) per contro sul versante femminista, ma a questo punto i conti tornano, sembra che il paterno non possa che essere scacciato: perché diventa genesi di un maschile negativo, negativo per struttura. Con buona pace di mariti, compagni, fratelli, figli che scompaiono dallo scenario di lotta. Lo scenario elude le differenze e le ambivalenze e ricolloca nel tempo e nello spazio la dimensione dello scontro tra donne, vittime e uomini, carnefici. In un conflitto irrisolvibile, che nega persino le sfumature (i contesti culturali della violenza, la malattia mentale, le ambivalenze, la complessità), e le domande, e la ricerca di una chiave di lettura complessa.
E’ chiaro che su una urgenza non ci si può muovere che con azioni precise e dirette. Ma io resto sulla necessità, complementare di esplorare, da parte delle donne (e degli uomini) la complessità generatrice della violenza. La lettura dei contesti in cui, tra donna e uomo, la relazione non si fa potere schiacciante, o conflitto o violenza ma dialogo delle differenze. Io spero che questo nuovo femminsimo si faccia capace di tenere lo sguardo anche su questa dimensione della complessità del tema, di cui mi sento parte nelle azioni pratiche, educative, “esplorative” più che in questa parte di pensiero politico basato sul conflitto.
Per chiudere torno alla genitorialità, al tema della maternità tradizionale, “perfetta”, chiusa in se stessa e autosoddisfacente, donativa, assoluta e alla paternità subalterna e quasi in adorazione di questa immagine irrealmente iconografica. Ma torno anche ai padri che oggi invece si mostrano capaci di offrire cura, accudimento, gesti umili e amorosi di pulizia verso i propri bimbi, attenti al proprio ruolo educativo per tratteggiarlo in un dialogo complementare con “l’altro” genitore, a sua volta liberato dallo stereotipo e capace di differenziare la relazione educativa con i figli. Sarà questa nuova paternità a tratteggiare nuove relazioni uomo donna, per queste figlie e questi figli, sarà questo meticciarsi di ruoli ad insegnare che “adgredior” (aggredire) in realtà è andare verso, e non obbliga ad usare violenza. Sarà un materno meno onnipotente a consentire ai maschi di crescere meno fragili e meno violenti, capaci di aver cura dei propri sentimenti, del corpo dell’altro/a. Sarà una genitorialità più fluida a dare maggiore forza al femminile delle figlie, non più destinate ad essere uno stereotipo, ma capaci anche esse di “andare verso” lavoro, cultura, società ….