1978 Il primo, quasi un milione di anni fa, da ragazzina di un qualsiasi liceo, ero in stazione per tornare a casa, quando seppi della morte di Aldo Moro. Arrivavo da una scuola media dell’hinterland vigevanese, dove la riflessione sulle notizie del telegiornale faceva parte della quotidiana attività didattica.
Ma nella nuova scuola (un liceo di provincia pavese prontamente sostituito l’anno successivo, con un liceo di milano, per mia fortuna) la notizia passò, invisibile, tra una lezione e l’altra, e lo stesso avvenne nei giorni successivi.
Ne rimasi stupita.
Quella faceva parte di quelle notizie che scuotono il mondo, e mi si incise nei ricordi. Eppure nessuno dei professori si pose il problema del mondo che girava attoro a noi.
La scuola ruotava su se stessa, in una clausura quasi monacale, tra noi e lo studio.
1984 Avvenne per me il secondo scossone al mondo, al mondo piccolo di una persona ancora giovane, fu la morte di Enrico Berlinguer. Non che per me fosse una icona pop, ragazzina blandamente di sinistra, quella era una voce e una faccia dei telegiornali, era il segretario del PCI, poco altro. Eppure vedere alla televisione una marea di persone commosse, turbate da quella morte mi diede il senso del tempo, dello scossone che si riverberava nella morte di un uomo. Il momento più intimo di una persona di nuovo apparteneva a tutti, significava, dava il tempo.
Mia figlia mi dice che sono una secchiona esplicita e si stupisce per lo sguardo sul mondo che porto (o racconto di aver avuto) fin da giovane. A me pare sia una caratteristica della mia generazione, e una cultura trasversale familiare che mi imponeva di capire se non proprio di pensare al mondo che “mi” stava attorno, o un cui ero calata …
2001
Poi ci fu Genova, il G8 e la Diaz, e io ci sarei andata con la figlia piccola … ma la figlia piccola servì a dissuadremi dall’intenzione. Vidi tutto dalla televisione, sempre più incollata alle immagini e sempre più terrificata.
Uno smottamento ancora più grosso, nel cuore, nell’indignazione che ti scalda dentro come il peggiore degli incubi. E che non si leva. Non solo la rabbia per il sangue, le notizie sempre più orrende, frammentate e spaventate ma quella attonita espressione di chi non sa più riconoscere lo stato. Quello stato di diritto. Quale stato? Quale diritto? Gli amici, quelli che sono andati a Genova, come stanno? dove erano? tutti bene? Fino alla morta di Carlo Giuliani. Quello era (è stato, è …) lo Stato? Quello era lo stato italiano, irriconoscibile!
Non so se riuscirò ad andare al cinema a vedere il film, in proiezione di questi giorni. Non credo possa aggiungere nulla ai miei smottamenti e ai miei dubbi, alla fatica di questo tempo e alla fratture storiche che ho vissuto, e che ci hanno dato questo momento brutto, di crisi e di valori patacca, di truffatori e politici straccioni, di arrampicatori e incapaci di aver cura della polis-politica che ci stanno propinando. Gentaccia.
Ma bene o male lo stato siamo noi, mi dico. Quello che dal basso riparte ogni giorno, che sgarrupato si sveglia, e dice no alle mafie, alla sete e fame di potere, che sceglie comunque l’etica alla riuscita, che si sbatte per resistere …
La media dei miei amici, di chi amo, dei colleghi preferiti è composto di gente così.
Per fortuna mia e delle figlie che io e il mio compagno stiamo facendo crescere. imho