Sara’ la serata insonne o il caso, o il periodo un pò cupo, che mi trova a leggere quanto scrivono sui socialnetwork i genitori sui con figli disabili, o i figli che incontrano la malattia dei genitori dietro le porte di ospedale, o chi incontra, in una malattia, la fine di qualcosa. E ciò si mescola insieme alla vita che accade, ai dolori anche vicini,
A tratti alterni spunta, con ricorsività, anche la voce di chi sa fare la tassonomia del dolore, e ti mostra che se soffri o non soffri per una certa questione sei, più o meno, bravo, o più o meno competenete. Ci sono gli imperativi categorici del soffrire, e del non soffrire.
Ci sono quelli bravi, bravissimi, che soffrono meglio, quelli che sono più nobili nel dolore, quelli eleganti, quelli cinici, quelli che si disintegrano, o che sembra non ce la facciano. In ogni caso, spesso, ti raccontano che il loro dolore è “più” ….
Ci sono quelli che ti sbarellano, ti tolgono il fiato, mostrando come non soffrano il soffrire. Con tutto ciò che significa.
Attorno il coro dei compartecipi, empatici, compassionevoli. Forse i più fortunati, toccano il cuore delle questioni e se ne fanno toccare.
C’è persino l’amica di antica data che ti accusa di non aver avuto abbastanza sofferenze dalla vita, che lei si ….
Va da se, che nel gioco delle misure, c’è sempre chi ce lo ha più grande e chi più piccolo, in ogni caso non avendo parametri assoluti di riferimento, spesso si finisce per essere incasellati in una categoria inutile, e generica.
Ma funziona? Ha senso? Ci accomuna davvero?
Come se non fosse possibile che assieme al disegno dell’iride, alla forma del proprio naso, alle impronte digitali, non fossimo unici e irripetibili anche nella sofferenza. Un sentimento comune, che un pò ci affratella, ma si fa divergente nel suo agganciarsi alla vita, che si rende unico per via del DNA, per la vita che ci accade, per ciò che si è imparato. Credo.
Fatto sta che questo “cavolo di” … dolore si sente e si vede, anche quello degli altri. A volte non si sa nemmeno metterci le mani, o lo si fa con goffaggine. Lo si affianca, gli si cammina accanto, svuotati.
Anche i dolori piccoli dei figli, piccoli per noi, ma non per loro, (sempre lo stesso problema – le misure) li vedi che ci si confrontano sprovvisti e incerti. Alle volte esprimendo un dolore puro ed essenziale, senza pensieri.
Ci accomuna anche questo, non la causa. L’effetto.
Di fronte ai “Soloni” del dolore, “solo” bravi a delegittimare i dolori altrui, sempre a favore dei propri .. si può solo sfuggirli come con la peste alle calcagna. E mettersi a cercare qualche sodale che si accontenti di condividere e guardare insieme quel dolore, ognuno da par suo. Anche fosse minimalista, banale, ovvio, comune.
Che poi è pure vero che ci sono dolori così intollerabili, cha fanno male solo a nominarli, a sentirli raccontare, ad affiancare anche solo chi li racconta.
E poi c’è quel gene materno che ti vorrebbe capace di evitare ai figli quell’incontro, o di permetterlo solo dopo averli attrezzati. Ma i figli sono abilissimi a farlo da soli, o in modo imprevedibile o incomprensibile. Appunto, ognuno fa quello che può o che sa. Intanto da genitore senti la spinta a dare una forma, una parvenza di senso, un abbozzo di exit strategy, una valigia degli attrezzi, qualche parola che aiuti, o la spalla per appoggiarsi …
Da vera incompetente, ma in-tanto ci provi.
Tanto …
Chissà che i figli non ci insegnino anche l’umiltà e la capacità di ascoltare le diverse forme di dolore e tollerarne le diverse cause, anche quando sono dolori strani e alieni. Altrui. In fondo insegnare a loro ci obbliga a fare i conti con le nostre inadempienze …