Provando a mettere mano e nominare anche le questioni più scomode, ed esplorandole con il solito manipolo di coraggiose su facebook, e con alcune colleghe dalla sfera pedagogica.
In questo lavoro di esplorazione la pratica del dubbio diventa passaggio indispensabile.
come siamo mess* in fatto di ‘antenne’ in grado di cogliere i semi della violenza domestica o della sua presenza conclamata?
Le condivisioni (di pensiero, di immagini, di azioni, di visioni) che avvengono in rete in tema di femminicidio stanno producendo un nuovo immaginario “I care”nel quale ognuno di noi, donne e uomini a proprio modo, è protagonista. Immagini, pensieri, visioni, condivise attraverso connessioni veloci, si stratificano a faglie nella nostra mente, si cheratinizzano, ci formano, conferiscono un senso e una struttura al nostro agire. Ne siamo consapevoli? Ovviamente sì, pensiamo in molti, ma in tema di consapevolezza vi sono ambivalenze e ambiguità sottili, non essendo la consapevolezza un “tutto tondo” ma una rete che funziona a nodi, soprattutto in relazione col resto del corpo.
Siamo immersi in una iper-produzione di significati che non è solo inevitabile ma anche necessaria per affinare la nostra capacità di selezionare contenuti e di trattenere solo ciò che in quel momento siamo disposti o riusciamo a trattare. Come a dire, pedagogicamente, che l’universo web ci immerge in un processo di umanizzazione e di riconoscimento dei nostri limiti.
Ognuno di noi è proteso ad operare questa sintesi tra ciò che discute a livello intellettuale e ciò che vive a livello di presenza nel mondo intendendo la presenza una presenza di corpo e col corpo, “il mio corpo”. Si tratteggiano percorsi inediti, nascono architetture sorprendenti, figlie della capacità di stare in relazione condividendo fragilità e forza, spinte propulsive alla definizione di nuove libertà, del prendersi cura di sé e del mondo in maniera inedita. Nuovi paradigmi, forse, o autorevolezze differenti perchè il tema della violenza sia sempre più culturalmente un tema “nostro”. Uomini e donne dobbiamo smetterla di proiettare il nemico al di fuori di noi e riprenderci in mano cosa della violenza non abbiamo ancora trattato dentro noi. È facile parlar di uomini, del loro immaginario aggressivo riprodotto ossessivamente dalle sue collusioni col potere. Parliamone, e non smettiamo di parlarne nemmeno per un giorno. Allo stesso modo, non posso non lasciarmi interrogare da queste donne che incontro e che mi parlano di “inadeguatezza”, a partire dal fatto che le loro teste ora ben curate e acconciate, sono state sbattute contro un muro da un marito violento.
(tratto da http://katia-cazzolaro.yolasite.com/blog/you-and-me-faccia-a-faccia-col-femminicidio)
Aggiungerei anche una domanda, per tutte e tutti, ancor prima che per chi è vittima:
che rapporto ho io con la violenza che è in me, quella che mi è stata insegnata, quella che mi è stata repressa, quella che ho visto, quella che non mi “bonifica” in quanto donna, ma che mi permea, volente o nolente.
Fatico a vedere il femminile solo buono, una deriva sempre in agguato, rispetto al maschile sempre cattivo. Eppure, il significato e la relazione con le “violenze”, mi appartengono e mi informano (danno forma) perchè la cultura in cui sono calata (me) le esplicitano o (me) la insegnano, attraverso una serie di atti che si trasfondono in un certo modo di viverla, ma che dicono che la “violenza” (atto, pensiero, idea, azione, desiderio, rigetto, fantasia) va declinata diversamente in quanto donna o uomo. O meglio se si è donna, per tutti (donne e uomini), la violenza non “esiste” o esiste coma anomalia e mostruosità.
Un altra domanda non mi convince, la la violenta è intrinseca al “maschio” come è dato che le donne non siano mai riuscite a eradicarla, essendo – da tempo immemore – educatrici di maschi?
Così devo accedere ad una domanda successiva: questa affermazione (donna non violenta), che mutuo – e imparo sin da bambina – dal mondo esterno, mi legittima davvero a non vedere in me la parte violenta e spostarla (sempre) altrove, in colpe/azioni altrui?
Lascio fare a quanto ho appreso, o mi posso acculturare e fare uno scomodo passo in avanti.
Ammettere una propria parte violenta e poi riconoscerne i semi è un possibile primo passo. A cui fare seguire un nuovo passo/passaggio che inizia con una nuova domanda: so che mi hanno insegnato – in quanto donna – che fare male è male, menarsi è male, reagire è male, trattenere la propria rabbia è bene, e passare da questi insegnamenti per giungere a negare la propria capacità/necessità di azione/reazione il passo è veramente breve….. Sono certa che è davvero questo che scelgo di scegliere? Di essere solo quello che mi hanno insegnato?
Mi accontento che la mia cultura/formazione di base affermi che (la) donna è passiva e quindi necessitata a subire, accetto quanto mi hanno insegnato e formato ad essere? Accetto che un uomo sia solo attivo e agisca, lui può (se) è maschio, io non posso perché sono femmina?
Dove mi fermo, dove non scelgo, dove non accetto che ci siano – esistano e siano legittime – una rabbia e una furia femminile (i greci ci hanno donato Furie ed Erinni, per declinare questa possibilità femminile). Una rabbia che non accetta il concetto di inevitabilità di donne debole e quindi passibile di essere sotto-posta a violenza ? Una furia che impone con una domanda come MI difendo?
E come concilio la violenza “privata” con gli ambiti in cui (si è) essere una donna attiva e che agisce? Spesso le donne, si dice che, siano maestre di resistenza passiva, cioè portatrici di una reazione, una azione, che può essere più o meno efficace. Ma la pratica della resistenza passiva, come da gandhiana memoria, ha avuto il grande pregio, a mio avviso, che quella delle donne non sa ancora avere, quella di essere una pratica politica e civile, espressa, consapevole, mirata, diretta. Esplicitamente contro. Contraria.
Svuotare le tasche delle negazioni del femminile, e recuperare in forma propria, non esattamente la violenza (che a me non piace proprio .. sarà la cultura che mi ha formato) ma essere attive nell’azione pubblica, politica, educativa, civile. Sdoganare la rabbia e la violenza possibili nel femminile, dichiarandole possibili mi pare una possibilità da interrogare e interpretare. Ne’ sante ne madonne’, ne streghe’. Al limite rigorosamente furibonde.
Certo l’immaginario vuole che la violenza femminile, non dissimilmente dalla violenza che permea troppi strati della cultura, e che vede violati e sottomessi i diversi, deboli, fragili, ne uscirebbe già evoluta e matura. Capace di essere nominata ma non agita, di esistere come azione non violenta, ma efficace e potente. Una speranza e una aspettativa che, in realtà, condivido. Basta uscire dalla nicchia.
Ma prima sento che la consapevolezza di ciò che “è violenza” va trovata e poi condivisa con il maschile, e confrontata, esplorata, esposta, sbugiardata tanto tra i due generi, che nelle sacche culturali, sociali e politiche, e da li fatta uscire, educata, trasformata.
Molte idee e confuse? E’ a questo che servono gli interrogativi e i pensieri tormentosi.
1 agosto 2012 alle 21:38
Questo mi ha fatto riflettere…http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2012/tibet-moso-comando-donne-30630362752.shtml
2 agosto 2012 alle 00:47
Molto interessante, e da studiare. Grazie!
4 agosto 2012 alle 13:42
grazie molto interessante…
4 agosto 2012 alle 21:17
Figurati…il discorso sulla violenza e sul ruolo delle donne nelle società matrilineari sarebbe da approfondire su fonti più serie.
Ho la sensazione che nell’articolo manchino parecchie zone d’ombra.
Su Wikipedia (non è il massimo…ma per cominciare…) ho letto per esempio che per i Moso, la politica resta comunque appannaggio degli uomini.
5 agosto 2012 alle 08:09
Me lo immagino facilmente, che ogni società abbia zone d’ombra e criticità, ma appunto studiare con cura e da fonti serie ci aiuta a comprendere se altri modelli sono possibili, o se dobbiamo solo omologarci ad un solo ed unico. Mi pare profiquo farsi contaminare da “altro” …..