La prima illuminazione arriva con le parole di una mia docente di danzaterapia: “siamo state tutte anoressiche”, seguite da una altro bruciante “gli egocentrici muoiono soli”.
E ancora un’altra offerta, volontariamente o meno, da una cara amica: “anoressia per controllarsi, laddove il mondo adulto non ti controlla. Così ti controlli da solo”.
Poi quell’altra frase di una collega psicologa che spiega qualcosa, che ti consente di accettare di provare dolore per un lutto e una morte, che la logica dice non appartenerti.
Insomma il dolore, per ognuno, prende le forme meno probabili.
Anzi ognuno cerca di dare al proprio dolore una forma.
Perché non resti solo devastazione, e diventi accettabile, ma non banale.
Il dolore potrebbe essere quella cosa che ci accomuna, e ci assimila, se non nella forma … nella sostanza.
Invece diventa il catalogo esibito del dolore migliore, quello che legittimamente fa soffrire di più, degli altri.
Un dolore che (egocentricamente) ti rende esclusivo/a ed escluso/a dall’umanità, dolente per cause sue, ancorchè improbabili.
Conoscevo due o tre persone che esibivano un catalogo di dolori/sfortune/malanno tali da renderle, quasi disumanamente, inavvicinabili; e che in virtù della loro (oggettivamente) massiccia sofferenza, stavano 10 metri sopra agli altri.
Soli.
Aveva ragione la mia prof! Abbiamo tutti qualcosa che ci accomuna, e rende umani, vicini all’umano. E ci tocca pure cercarcelo meticolosamente dentro, smitizzarlo, rimestando nel nostro torbido, trovare quel qualcosa per prendercene cura; per scoprirci meno soli e più vicini agli altri.
Per non morire (dentro) soli.
Alè.
Stay human