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Migrazioni digitali: appunti

Tra le varie definizioni di persona che “sta” in rete, troverete gli ibridi digitali e gli indigeni digitali, e poi nativi digitali (che nei primi due casi corrispondono a precisi progetti e pensieri) e forse cercando, si trova anche qualcos’altro.
Ma non ho ancora trovato una definizione che mi calzi a pennello.

Forse la definizione che sentirei più congruente sarebbe quella di migrante digitale.

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Riconosco, nell’esperienza in rete, tutta una parte di “lavoro”  sicuramente finalizzata alla condivisione di contenuti; ma anche alla costruzione di reti, definita da una continua migrazione tra alcuni luoghi di partenza, verso nuovi luoghi da scoprire, esplorare e ricollegare alla “casa madre”.

Sono partita come blogger con Blogspot cui è seguito WordPress che è diventata “casa madre” con una serie di blog tematici, passando per le piattaforme che costruiscono siti on-line jimdo e wix in particolare, per arrivare ad esplorare e aggiungere Twitter, Facebook, Instagram, Google+ LinkedIn, YouTube e Pinterest.

Ogni migrazione è un viaggio, una migrazione che permette di imparare qualcosa di nuovo sul social che si sta utilizzando, sui suoi frequentatori e contenuti che è possibile produrre o condividere.

È un continuo migrare ed integrare, alla scoperta di luoghi, pensieri e persone.

Ogni volta.
Ogni volta (va) sperimentata a sufficienza la nuova terra, ritessendo c qualche contatto con altri migranti 2.0, si va ancora alla ricerca di un nuovo viaggio e un nuovo Social.
Migrare, e se questo invece facesse parte dell’atto naturale connesso alla rete.Dove il movimento sembra essere naturale.

Un movimento di migrazione esplorativa, conoscitiva, e sempre sociale, e (spesso, sempre?) mirato anche alla ricerca dei membri della propria tribù allargata, da ritrovare.

e un movimento volto a ricercare, tanto la relazione quando una conoscenza raffinata degli altri, e attraverso la loro narrazione sociale (social).
Mi fa venire in mente un film, visto di recente, (per lavoro) Disconnect, in cui una delle sottotracce mostra come la rete tanto mistifica e permette l’inganno, apre le strade al disagio, ma al tempo stesso svela  … obbligando l’autenticità ad emergere.

E allora migrare è svelare le proprie tracce, le tracce che inevitabilmente sii mostrano celandole, non dicendo di me, svelo le parti che tengo nascoste.

Quanto maggiormente la rete (ci) permette di nascondere, altrettanto svela potentemente.

Migrare è costruire legami che mi tengono insieme (ad altri) nella distanza, costruire significati e produrre contenuti che condivido e aumentano la mia vicinanza agli altri.

E’ tracciare una traiettoria in uno spazio di viaggio, dove raccolgo e offro qualcosa di me e della mia storia. E ciò che lascio non è mai perso.


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“Ai miei tempi” e il tempo nel web

Fortunatamente non sono ancora giunta all’età in cui senta opportuno rammaricarmi del fatto che il tempo della mia gioventù fosse insindacabilmente migliore di questo mio tempo.

Non che non veda i segni della crisi del tempo, ma so che a 16, 24, 32 anni ero troppo ora giovane, ora troppo affaccendata in altre cose della vita per chiedermi se ci fosse un tempo migliore.

Eppure adulti, come me, già segnalano come questo sia un tempo peggiore; hanno in parte ragione, son tempi strani, per quanto sembra che ne abbiano maggior ragione o diritto gli anziani, come lo faceva una battagliera signora ottantenne, incontrata ieri.

“Una volta c’era meno cattiveria, e la gente si aiutava” diceva, dimenticando che l’età dell’oro, bella nei ricordi, era anche quella della barbarie nazifascista.
Insomma l’età imbellisce qualche ricordo e modifica la narrazione.

L’età giovane, quella in cui si vive giovani o da giovani, non ha ancora misure di paragone o giudizio, in cui non servono i bilanci.
Ecco … Il web mi sembra di quella età senza giudizio storico e definitivo, della sperimentazione e di qualche esperienza sedimentata, ma per la quale occorre fare e imparare, imparare a vedere e poi dire “era meglio/peggio ai miei tempi”.

O forse sarà che sento ancora e profondamente mio questo tempo, web annesso e “connesso”.


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Mini selfie

Il mio ipad è completamente invaso dalle foto della minima, che oltre a giocare con le varie app scaricate, si diletta a fotografate cane gatti, divano, tv, muri .. insomma sperimenta i piaceri della fotografia a ripetizione.

Poi fotografa se stessa. Facce buffissime e serissime, stranissime ( soprattutto tenerissime agli occhi di sua madre).

Ma il selfie … orrore! Esperti, espertoni, opininisti, fancazzisti web dicono che è il male, la patologia del nostro tempo, l’incertezza dell’immagine di se, il narciso fragile che si dichiara al mondo.

La minina non pubblica le sue immagini, ma le fa.

Forse è meno grave?

Gli smartphone con doppia ottica facilitano l’incontro con l’immagine di se. Una immagine statica e non dinamica, come è quella nel riflesso di uno specchio.

Non so quale sia la risposta sociopsicopoliticoantropologica giusta al selfie, e se dobbiamo interpretarli come segnali effettivamente gravi.

La grande si è fatta un paio di foto molto belle, e la piccola ci gioca. Dramma educativo, o no?

Eppure il genere non è nuovo. Anzi gli artisti lo hanno sempre praticato, cercando se stessi, o di comprendere la propria forma dinamica e statica. A questo punto trovo legittimo sospendere il  giudizio e aspettare letture e altre possibili interpretazioni del fenomeno.

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