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Di scuola e di ruolo – dopo il 12 aprile 2011

tratto da una intervista Maria Pia Veladiano, insegnante, laureata in filosofia e teologia

Lei è un’insegnante. Uno dei personaggi positivi de ‘La vita accanto’ è rappresentato proprio dalla maestra Albertina. In che modo è cambiato il ruolo dell’insegnante in Italia?

Nell’ultimo decennio l’insegnante è stato ed è ancora oggetto di una sistematica operazione di demolizione del riconoscimento sociale che, invece, lo aveva accompagnato nel secolo scorso e lo aveva aiutato nel suo difficile lavoro. Oggi tutto è più complesso, perché la classe è un piccolo mondo, dove le differenze sono meravigliose e faticose insieme. I confronti un po’ passatisti fra gli insegnanti di un tempo e quelli odierni non hanno senso: nelle classi, un tempo, non entravano i disabili, chi non stava al passo dei programmi veniva escluso senza appello. C’è stato un momento in cui la scuola è stata accompagnata dalla fiducia della comunità e in certa misura anche della politica, che ha creduto nella sua vocazione all’integrazione, al suo essere a servizio della cultura intesa come capacità critica di conoscere la complessità del mondo. Oggi si colpisce la scuola perché fa paura la libertà del pensare e fare l’insegnante è più difficile. Quel che resta è la possibilità di conquistarsi un prestigio personale, individuale. Ma il riconoscimento sociale non c’è più.

Giusto e vero. Tutto o quasi.

Mi assumo la voce della polemica di chi pratica l’educazione, con un ruolo professionale ancora più misconosciuto di quello dell’insegnante, a poco più di 1000 euro al mese, con altrettanta vita da stra_precario. Gli educatori professionali, misconosciuti anche dagli insegnanti stessi.

Va da se che occuparsi di disabilità, tossicodipendenza, malattia mentale, povertà, migranti, minori a rischio di devianza, carcere … rappresenta un autogol in termini di rappresentabilità sociale.

L’educatore non vale nulla socialmente, almeno quanto la sua utenza. E’ un paradosso e una provocazione si intende.

Perchè ufficialmente ci si dice che le marginalità sociali hanno un valore e sono portatrici di diritti, vanno tutelate, protette, e fatte crescere verso occasioni di vita migliore.

Ma restano ancora un pò marginali.

Socialmente depresse.

Socialmente depressi restano quindi anche gli educatori, i loro stipendi, la considerazione sociale. Anche se qualcuno ha due lauree, o le specializzazioni, i master, la formazione e anni di studio e lavoro.

Provassimo a tenere un pò di più l’asse sulla questione educativa e  non sulla qualificazione dell’utenza forse troveremmo maggiore stima sociale e minore stigma.

Eppure quel lavoro sporco che s’ha da fare, quel “quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare”, fanno parte dell’educatore professionale, a volte insieme ai dredlock e all’abbigliamento molto “street”.

Perchè la passione educativa induce a trovare, esplorare, imparare, insegnare, scoprire, lottare … dove non si vede quasi nulla. Nel buio e nella fatica dei luoghi, delle strade, della gente.

Questo si che gli educatori potrebbero, forse dovrebbero, insegnarlo agli insegnati troppo appiattiti e addolorati.

Non è l’autostima da conquistare, non il ruolo professionale prestigioso, non è l’infausta Gelmini il nemico da combattere, ma la lotta ostinata va fatta contro le nuove forme di ignoranza, per i pensieri bambini o adolescenti da sedurre fuori dalla tv spazzatura, da stereotipi e saperi banali e ignoranti, che ottundono e chiudono. Va riconquistato il cuore e il piacere, la bellezza di strappare il sipario del banale per la meravigli che nasconde …

Stay human …


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Guest Post: Tra squola e scuola

La Squola dell’obbligo…

Io ci sono andato a squola, ho fatto tutto il percorso dell’obbligo: asilo, elementari, medie.

Ho scelto di continuare (superiori e università) anche quando non ero più obbligato a farlo, perlomeno dallo Stato italiano non certo dalla monarchia famigliare… (“Ma dove vuoi andare senza un pezzo di carta?”)

Ma cosa ho imparato dalla squola sulla scuola?

Ovvero: che differenze ci sono tra l’andare a squola per obbligo (legale e/o familiare) e l’andarci per fare e essere scuola? Il piacere e, almeno per me, un senso di responsabilità comune! La consapevolezza di apprendere qualcosa di utile non per ottenere il famoso “pezzo di carta” ma per imparare ad essere parte di qualcosa, contenuto e contenitore della scuola e non detenuto dalla squola.

Basta obbligare qualcuno, senza dare valore a ciò a cui lo si obbliga, per ottenere un risultato? Una sorta di apprendimento per ripetizione continua, costante e sempre uguale; obbligati ad esserci e a “stare”, a prescindere dal cosa ci stiamo a fare! Sinceramente, a me, una squola di questo tipo richiama di più alla mente una forma di tortura che di cultura. Una tappa ritenuta così necessaria e fondamentale per lo sviluppo dei nostri figli da venir posta come obbligo non può non essere tutelata e protetta nel suo senso primario e fondante: insegnare – imparare!

Andare a squola è un obbligo, e andare a scuola cos’è? Sempre un dovere? Oppure la scuola è un diritto?Meglio ancora, entrambe le cose: diritto e dovere? Perchè se così fosse, bisogna cambiare i termini di analisi e capire come poter garantire la fruizione di un diritto-dovere che sia di qualità. In poche parole, un servizio dietro al quale ci sia un pensiero e non solo numeri e conti da far quadrare… La scuola è un investimento che richiede una spesa, anche economica; la squola, invece, è un luogo dove rinchiudere giovani menti per evitare che qualcuno si azzardi ad avere un pensiero diverso da quello che dovrebbe avere! E chi sarebbe in grado di gestirlo poi? A squola si insegna solo cultura, a scuola la cultura si fa!

Ovviamente è una provocazione, ma che apre a molte riflessioni sullo stato della scuola Italiana, anche come specchio della situazione socio-culturale del nostro paese.

 

Emanuele