« Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire. »
La spesa al supermercato, complicità che trovi e che crei, con la signora davanti alla uova, con la mini (la figlia piccola) quando cerchi i donuts, e lei ti racconta il film del suo risveglio, quando lo tufferà nel latte. Il concessionario, valla tu a cercare un auto, immaginando la stretta interconnessione tra desideri, e budget.
Anche lei, sempre la piccola, mi chiede del budget e del conto bancario, non bastasse il suo ruolo di amministratrice delegata di un sacco di emozioni della mia vita.
Quanti momenti magici e pieni di stupore ci regala la vita, non scelti, ma accaduti. Colti. Raccolti. Conservati. In quello stupido supermercato. Rifaccio la carta, perché le battaglie ideologiche verso quella catena di supermercati, sono finite, e i punti e le offerte sono appetibili, per il famigerato budget.
Certe battaglie sono archiviate in una vita che non mi appartiene più, ormai appartiene alla storia, minima certo, ma vostra e toccante.
A chi la consegnerete? La spesa, l’amore, le piccole e le grandi domande. Quello che avete imparato, faticando tanto, una pochezza per tutti gli altri. Una enormità per le vostre piccole cose. Cercate di capire se all’amore, che non c’è ma forse vi pare di intuire, potrete consegnarvi, e consegnare la vostre piccolezze; o se quei momenti felici saranno base solida per la vita delle vostre figlie. Se la bellezza che vivi è quella che soddisfa e sazia, pure nella sua estemporaneità.
Ma abbiamo voglia di condividerla, comprendendo se il senso è comune, se siamo meno soli di quel che ci pare.
Le domande non sono, in fondo, altre che queste?
Io non so perché mi salvò la vita.
Forse in quegli ultimi momenti amava la vita più di quanto l’avesse mai amata…
Non solo la sua vita: la vita di chiunque, la mia vita.
Tutto ciò che volevano erano le stesse risposte che noi tutti vogliamo:
“Da dove vengo?” “Dove vado?” “Quanto mi resta ancora?”
Non ho potuto far altro che restare lì e guardarlo morire.
Il mio ipad è completamente invaso dalle foto della minima, che oltre a giocare con le varie app scaricate, si diletta a fotografate cane gatti, divano, tv, muri .. insomma sperimenta i piaceri della fotografia a ripetizione.
Poi fotografa se stessa. Facce buffissime e serissime, stranissime ( soprattutto tenerissime agli occhi di sua madre).
Ma il selfie … orrore! Esperti, espertoni, opininisti, fancazzisti web dicono che è il male, la patologia del nostro tempo, l’incertezza dell’immagine di se, il narciso fragile che si dichiara al mondo.
La minina non pubblica le sue immagini, ma le fa.
Forse è meno grave?
Gli smartphone con doppia ottica facilitano l’incontro con l’immagine di se. Una immagine statica e non dinamica, come è quella nel riflesso di uno specchio.
Non so quale sia la risposta sociopsicopoliticoantropologica giusta al selfie, e se dobbiamo interpretarli come segnali effettivamente gravi.
La grande si è fatta un paio di foto molto belle, e la piccola ci gioca. Dramma educativo, o no?
Eppure il genere non è nuovo. Anzi gli artisti lo hanno sempre praticato, cercando se stessi, o di comprendere la propria forma dinamica e statica. A questo punto trovo legittimo sospendere il giudizio e aspettare letture e altre possibili interpretazioni del fenomeno.
http://www.repubblica.it/cronaca/2014/01/27/news/childfree_no_kids_luoghi_vietati_ai_bambini-77023074/Ristoranti, hotel, voli aerei, stabilimenti balneari: la nuova tendenza è l’ambiente “childfree”. Nato in Usa ed esportato in Europa, il fenomeno ha contagiato anche i Paesi del nord, notoriamente molto attenti alle esigenze della famiglia. E in Italia sono sempre più numerosi i luoghi che sposano questa idea
Per ora le argomentazioni portate a favore di questa scelta, da parte di alcuni genitori con cui ho discusso su Facebook, sono:
evitare di dover cenare con i bambini maleducati, invadenti, troppo agitati e “ululanti”;
i bambini italiani sono più maleducati perché i genitori non li educano;
gli adulti hanno bisogno di spazi per adulti (magari raffinati, esclusivi, dove godere di cene squisite);
gli adulti italiani (?) non sono capaci, una volta diventati genitori, di uscire da una logica “bambinocentrica”, cui consegue la maleducazione già citata, e si collega ad un bisogno inespresso di uscite senza figli.I genitori non escono senza bebè, e quando lo fanno non sanno gestire l’uscita;
i bambini sono maleducati anche in treno (dove gli adulti devono lavorare in santa pace) o in aereo;
la maleducazione permea la vita di tutti, e l’insofferenza cresce, e la voglia di azzerare il disturbo.
Ergo un problema educativo, diciamo che lo sia, si risolve togliendo l’elemento di disturbo. In questo caso i bambini. Ovvero i bambini resteranno maleducati, ma lontano dalla “mia” cena raffinata, o romantica.
Eppure io continuo ad immaginare che la soluzione non sia mai nascondere il problema sotto il tappeto, ma affrontarlo differenziando e complessificando la questione.
Se penso ad un locale pubblico, immagino alla politica commerciale del noto magazzino di mobili svedese, capace di immaginare una esperienza per tutti, creando: spazi diversi, luoghi pensati ad hoc (per bambini e piccoli), una accurata definizione del tempo (i bambini possono stare senza gli adulti ma per un tempo limitato) e in una fascia di età ben definita con precisione “svizzera”, menù differenziati, adulti che possono procedere con gli acquisti o meglio la progettazione degli acquisti anche senza bebè, salvo poi ritrovarli. E stanchezza a parte l’esperienza si rivela meno pesante e stressante, grazie a questi accorgimenti. E’ possibile che una pratica commerciale generi comportamenti più educati? Forse si.
Anche i musei si stanno attrezzando per rendere le mostre accessibili per tutti, adulti, amanti dell’arte, persino disabili – vedi museisenzabarriere.org – e quindi anche ai bambini. Tralasciando i veri musei per bambini, posso citare la mostra Van Gogh Alive – alla fabbrica del Vapore a Milano, una esperienza a misura anche di bambino.
Insomma ancora una volta si immagina di rendere diversamente accessibile una esperienza, stratificandola, riconfigurandone spazi e tempi, semplificandone alcune parti, e complessificandone altre.
Ma perché deve essere etico escludere qualcuno?
E perché non si immagina che ci si possa invece, assumere la responsabilità di fare il ristoratore, ribadendo ai genitori che alcuni comportamenti non valgono, non funzionano, non facilitano il lavoro del personale, e quindi il lavoro complessivo e l’esito finale = godersi una buona cena.
Perché non creare zone familyfriendly, allestite con giochi e mobili, cibi, e orari adatti ai bambini, che facilitino le famiglie a stare, anziché escluderle?
Il cambiamento arriva proprio offrendo una qualità maggiore e complessificata, creata ad hoc, per facilitare la presenza di tutti in un certo luogo.
Questa è una riflessione che prende dentro, a volerlo fare, tutti i temi dell’inclusione, dell’educazione sociale, collettiva e condivisa.
Educazione al vivere civile che impone che vi sia una fatica collettiva, individuale, necessaria per assumersi tutte le responsabilità del caso.
Sarà il lavoro che svolgo, ma un mondo pieno di luoghi esclusivi e non meticci, non mi convince.
E non solo per i bambini. I luoghi umani, per loro natura hanno il potenziale di assolvere a più funzioni, che sia lecito o meno, che sia estetico o meno.
Al lavoro nascono amori e tradimenti, il mondo è anche dei disabili, i vecchi frequentano luoghi da giovani; c’è un elenco infinito di cose che non dovrebbero ma … Ma ovviamente non si tratta di immaginare che non possano esserci luoghi esclusivi, e vincolati da impedimenti e regole rigidissime (la camera iperbolica, il laboratorio di virologia, una centrale nucleare), ma per il mille locali pubblici varrà sempre la pena di chiedersi cosa significhi vietare l’ingresso a qualcuno, in nome del fastidio di qualcun’altro.