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Gdo e pedagogia

Ieri, a Milano.
Siamo, con un paio di colleghe, intente a costruire un percorso educativo.
Una collega segnala la letterale “scomparsa” (in un certo territorio di una cittadina lombarda) di una tipologia di utenza, ossia gli adolescenti che una volta gironzolavano, più o meno “proficuamente” in città.
Spariti, volatilizzati e scomparsi.
Pare fagocitati di Internet, o dai megacentri commerciali che oramai punteggiano tutte le città.

En passant, penso che anche qui, (nel pavese) tra mini paesi e città appena un poco più grandi, i ragazzi sono spariti dalle strade, e a volte anche gli adulti, inghiottiti da un nulla aspecifico e inspiegabile: sembra morta la socialità per strada.
Tanto più che spesso i territori comunali non fanno nulla per riaggregare il “loro” tessuto sociale; sembra prevalere l’inazione.

Ma torniamo ai ragazzini e alla loro scomparsa, e ai nostri ragionamenti da operatori del sociale.
La quesstione della massiccia e capillare diffusione della gdo, dei grandi centri commerciali fa paura, perché ha snaturato la natura, che è pure sociale e interazionale, della vendita, per collocarla nel circuito chiuso di vendita/consumo/consumatore/prodotti di immediata fruizione/e di nuovo vendita.
Quindi appare snaturata la relazione umana, e la dimensione comunicativa, e il senso della merce stessa, e quindi ed infine del/dei bisogno/i sottostante/i.
Bisogna consumare, tutto, subito e fin da piccoli.

Va da se che il senso di chi educa si interroga, con preccupazione, sul tempo trascorso in un centro commerciale.

Un non luogo per eccellenza.

Se gli adulti snaturano, così tanto, la loro capacita’ di interagire con gli altri, a favore di acquisti compulsivi; se gli adetti sono così alieni e alienati, ed incapaci di “stare con”, di creare possibilità umane (in primis per se stessi, avete mai più trovato commessi gentili e dispinibili alla chiacchera?), cassiere algide o furiose, vendeuse rampanti che ti offrono 40 paia di mutande con un fantastico sconto del 19,9%…. che ne sarà dei loro e nostri figli?

Una collega ci domanda, anche più inquietata, quale poi sia il senso dei baby parking dove i più piccoli vengono depositati: si tratta di un altro modo di liberare gli adulti dal peso dei figli, per affrontare “meglio” il ciclo dei consumi? Bimbi affidati a emeriti sconosciuti, mentre i grandi fuorisamente comprano?

Sono domande impegnative e legittime, soprattutto sottendono la domanda: l’educazione può essere strumentalizzata alla vendita? Oppure c’è un intento di tutela dei piccoli, lasciati lontano dallo stordirsi adulto tra carrelli e scaffali, ridondanti di colori, forme, prodotti, desideri n scatola??

Ma, sento che resta senti altrettanto potente una latra domanda: che incontro possiamo progettare in questi luoghi?

Essi sono solo l’inferno del 3 millennio, il tormento e l’estasi di una umanità di consumatori, oppure i giovani spesso più “native” e forse più scafati di noi adulti sanno invece sfruttare questi luoghi, come luoghi di inconti – più certi e sicuri  – di certe città desolate e tristi, di paesi svuotati??

Non possono l’educazione e la cultura, smettere di annusare disgustate il consumo, e provare a progettare, a contendere i territori gli spazi alla vendita, chissà mai che questo possa anche renderle un favore, quello di tornare più social …

In fondo uno dei tentativi più curiosi del marketing, dove non è solo una prassi strumentale, è quello di restituire alle aziende la capacità “social”, di comunicare, comunicare con le persone, da persona a persona, a creare un modo diverso di intendere vendita e consumo. E’ una operazione che potrebbe, immaginando futuri piacevoli, permettere che Roma, conquistando la Grecia, “capta est”.

Ma quali energie sarà necessario mettere in campo, saprà l’educazione farsi ingaggaire in una sfida decisamente improbabile??


4 commenti

lavori altrui – in corso

il mio compagno lavora nel commercio.

e cioè anche io, quando non casalingheggio, mammeggio, stirello, consulenzo, psicomotricisticizzo, bloggereggio…

come credo di aver scritto una miriade di post fa, siamo a quota 537, è un mondo quello della clientela di un negozio che rappresenta un osservatorio bizzarro di umanità e bisogni.

ma anche chi lavora rappresenta una ben strana altra forma di umanità, spesso asservita ai bisogni e bizzarrie del cliente, per ora ho capito che:

1. non si beve, o ci si nasconde per farlo. non sta bene, non è bello non si fa.

2. mangiare???? farlo in pubblico è anche peggio: ho visto i ragazzi del bar, a fianco, ingozzarsi con un boccone per correre a farci un caffè (e si che ci conoscono da un paio di anni). insomma il cliente non deve veder o sapere che anche quell’essere lì si nutre.

3. il bagno. non si può chiudere un negozio per assolvere ai bisogni fisiologici …

4. orari di chiusura. è una astrazione. il negoziante non ha una vita propria. mai.

ora ammetto che la linea di confine è sottile, tra diritti e professionalità, tra un lavoro “di servizio” e la necessità di vivere in modo sano il luogo di lavoro, anche quando se si è proprietario/referente unico.

sconfinare troppo nell’uno o nell’altro versante è complicato e inadatto, anche perchè la famigerata clientela è sempre più abituata alla prestazione da grande distribuzione: tanto, tutto, subito, sempre e comunque. quindi sembrano non esserci vie di scampo per il negoziante che già non mangia e non beve …. domanda: è una prospettiva sana???

intanto per la cronaca la gdo sta uccidendo il centro della semicittà dove lavora quel pover’uomo (nonchè mio compagno di vita), i negozi chiudono come se piovesse, e non è solo la crisi in atto ma la stozzatura dei piccoli ad opera del grande.

chi tiene dietro al ritmo di apertura dei grandi centri commerciali? mentre gli amministratori comunali continuano ad autorizzare aperture di altri centri commerciali.

l’altra domandina sul senso delle vita (è una domandina carogna) è ma una volta che i centri storici saranno senza negozi cosa ne sarà delle città … ????