Un quadro in cui la sfida della cultura della complessità ha giocato un ruolo naturalmete centrale, prima di tutto proponendosi come area di convergenza, più che interdisciplinare, transdisciplinare, di cooperazione si ma “de-generativa” nel senso di superamento tra i generi, e di creazione tra generi nuovi, tra scienziati dei territori più differenti: ingegneri, matematici, filosofi, antropologi, linguisti, informatici, biologi, economisti, sociologi, ecc.
Sto leggendo questo libro: bella lettura, piuttosto impegnativa.
Arrivata a questo brano mi è venuta in mente una delle riflessioni che avevo condiviso (chissà dove) in questi giorni in cui abbiamo scritto tanto di e per #donnexdonne.
Il pensiero, se riesco a dargli una soddisfacemente forma chiara, è questo:
l’uso dei nuovi media, della comunicazione testuale, sta permettendo una nuova forma di conoscenza/consapevolezza del “femminile”.
Per il 21 Luglio avrei voluto pubblicare questa intervista doppia a Flavia Rubino e a Giuliana Laurita di The Talking Village, perchè mi sembrava che la loro esperienza rappresentasse una delle buone prassi al femminile (e in rete) che avevo conosciuto.
Ho conosciuto prima Flavia grazie al suo blog (Veremamme) e in seguito anche Giuliana nella sua veste di blogger .. e poi le ho incontrate dal vivo, in un improbabilissimo luogo per tutti – un grande e famoso negozio in cui si vendono mobili svedesi), poi Giuliana sul lavoro. E i loro blog (fra i molti che ho in mente) hanno rappresentato, per me blogger alle prima armi, un interessantissimo momento di incontro e di riflessione mai scontata su lavoro, maternità, quotidianità, presenza viva nel mondo, azioni di pensiero. In questo già sta e stava una prima buona prassi.
Poi le ho conosciute.
Come (mi) è già successo conoscere una blogger da vivo stupisce, è come se i tanti i preamboli della conoscenza si fossero volatilizzati o snelliti da quegli incontri precedenti avvenuti in rete. Ci si trova, direttamente. Così è stato con Flavia e Giuliana, il che ha alleggerito molto il poter fare qualche iniziativa web insieme. E come abbiamo visto tutt* nella giornata di #donnexdonne la rete è un fortissimo motore per la donne (anche per gli uomini ovviamente) che consente di muovere e promuovere più velocemente idee e iniziative.
In questo come si legge più oltre non ci sono differenze tra maschile e femminile, ma è a mio avviso che il femminile (brutta definizione lo ammetto) oggi ha bisogno i più impulsi, e stimoli, idee pratiche per passare dal dire al fare. Perché trovarsi tra donne non sia all’insegna del “club delle signore”, o del dirsi quanto si stia bene insieme ma perchè sia pragmaticamente un atto generativo. Di azioni imprenditoriali, culturali, educative, politiche, di ricerca che re-immettano tutto il potenziale intero del femminile nella società. Di questo io sento ce n’è bisogno. Così come agli uomini è dato di recuperare il proprio potenziale affettivo/personale/privato, alle donne è dato di recuperare quello sociale/imprenditoriale/pubblico.
Flavia e Giuliana a mio personale avviso lo fanno. Lo fanno senza mai interrompere o scindere la loro identità di donne complesse, molteplici, fatte di lavoro e quotidianità, di impresa e di famiglia, di dubbi e progetti, di innovazione, tra ciò che è pubblico e ciò che è privato. In un ottica di fruibilità, condivisione, e possibilità offerta ad altri di imparare e capire. Ciò che sento esser nelle corde delle molte blogger che conosco stimo.
Buone prassi?
Descrivetevi in breve
FLAVIA
Campana-romana e con un quarto di sangue sardo, attaccatissima alle sue passioni, irrequieta viaggiatrice per natura e incorreggibile testa dura. Odio i luoghi comuni al femminile e la retorica del sacrificio, come quella della scelta tra carriera e famiglia.
GIULIANA
ho 44 anni, un marito e un figlio di 8, vivo e lavoro a Milano. Per il resto prendo in prestito la descrizione che ho usato nel mio blog: Blogger, semiologa, web addicted. Donna, persona.
Che lavoro fate?
FLAVIA
Mia madre si lamenta di non saper più rispondere quando le fanno questa domanda su di me… Cerco di spiegarle che mi occupo ancora di marketing, non più per grandi aziende ma per la mia piccola impresa su internet.
GIULIANA
da circa un anno e mezzo abbiamo creato The Talking Village, un attivatore di community che ha l’obiettivo di mettere in comunicazione diretta aziende e persone attive in rete attraverso gli strumenti della conversazione. I nostri progetti sono orientati a tre tipi di servizi per i brand: il marketing/comunicazione, la ricerca, l’innovazione.
Da quanto lavorate insieme?
FLAVIA
Più o meno da due anni e mezzo, anche se la nostra società è nata ufficialmente un anno dopo.
GIULIANA
Lavoriamo insieme da un paio di anni, da quando cioè ci siamo rese conto che c’era qualcosa che non andava nella relazione tra brand e blogger. Il tema ci ha appassionato, essendo entrambe blogger e professioniste del marketing e della comunicazione digitale, e ci siamo buttate.
Da che tipo di realtà lavorativa provenite?
FLAVIA
Prima di iniziare la mia avventura in proprio ho lavorato per una quindicina d’anni nelle multinazionali del largo consumo, ricoprendo vari ruoli dirigenziali all’estero fino al 2006, e poi rientrando in Italia per dare una base più stabile alla mia famiglia. Poi da direttore marketing preistorico quale ero, mi sono trasformata in un’evangelista del web sociale e delle sue infinite potenzialità.
GIULIANA
Io vengo da un’agenzia web, un gruppo che è stato per molto tempo il più grande d’Italia e tra i più importanti d’Europa. Ho iniziato come ricercatrice semiotica, poi sono diventata strategist, poi sono tornata alla ricerca. L’agenzia è un posto duro in cui lavorare, devi essere disponibile sempre, le gerarchie sono confuse, il livello di efficienza richiesto è altissimo, trovarsi fuori è un attimo – basta un cliente meno che felice o un collega a cui non stai simpatico. L’agenzia ha definito molto il mio modo di lavorare, che è diametralmente opposto a quello di Flavia. Abbiamo due visioni del mondo completamente diverse, e questo significa due cose: discussioni interminabili e una grande ricchezza da offrire ai nostri clienti e alle persone che ci seguono.
Scelta o necessita’?
FLAVIA
Scelta, al 100%, guidata dall’insofferenza verso l’ambiente lavorativo che mi circondava nell’ultimo paio d’anni trascorsi da dirigente in azienda.
GIULIANA
Scelta, sicuramente. Io non ne potevo più di lavorare sotto un padrone che percepivo come sempre in ritardo sulle cose meravigliose che stavano succedendo in rete, e la rete è sempre stata per me prima una passione e poi una professione. Con Flavia ci siamo conosciute attraverso i nostri blog, e quindi l’incontro è avvenuto “sui contenuti” e non sull’emotività. Da qui a decidere di fare qualcosa insieme il passo è stato breve.
Il fatto che siate due donne e’ accessorio o sostanziale?
FLAVIA
E’ sostanziale nel nostro rapporto personale di stima e fiducia, e anche nel modo in cui ci siamo incontrate in Rete (leggendo i rispettivi blog). E’ accessorio per quello che riguarda le nostre competenze professionali, che sono molto complementari.
GIULIANA
Onestamente non so se il fatto di essere due donne è sostanziale o pura coincidenza. In Flavia ho visto una professionista, una persona decisa e decisamente brava, che poteva essere complementare rispetto a me per tante cose. Non mi sono mai chiesta che cosa sarebbe successo se al suo posto ci fosse stato un uomo.
Qual’e’ l’innovazione che e’ contenuta nel vostro lavorare insieme?
FLAVIA
Direi la priorità che diamo sempre alla conversazione online, intesa come vera relazione. Rispetto alle tante agenzie di PR digitali, con The Talking Village vogliamo realizzare progetti di marketing realmente partecipativi, cioè influenzati dalla community che coinvolgiamo. Lo facciamo “mettendoci la faccia” come blogger e professioniste, in modo che i partecipanti ai progetti si sentano parte di un team e non solo target da raggiungere con operazioni promozionali di vario tipo. E’ un approccio che richiede grande dispendio di energie, non immune da insidie, ma che produce grandi soddisfazioni e un networking eccezionale.
GIULIANA
L’innovazione è nel lavoro stesso, nelle cose che facciamo, intanto. E poi lavoriamo quasi sempre a distanza, riusciamo a vederci molto meno di quanto vorremmo. I nostri consigli d’amministrazione avvengono spesso al ristorante, e questo ci fa molto ridere. Sul lavoro in proprio come occasione di conciliazione credo ci siano molti miti da sfatare. E’ vero che posso gestirmi il tempo da sola, ma le ore che dedico al lavoro sono tantissime, sicuramente più di quelle che vi dedicavo stando in azienda. Credo che spesso, invece, molte donne si mettano in proprio pensando che così avranno il tempo di dedicarsi alla famiglia e ai figli: dipende, se il lavoro è un divertissement, allora sì, altrimenti non c’è verso. Io passo almeno 10 – 11 ore al giorno in ufficio, e spesso la sera e nel week end mi connetto ancora perché ci sono mail a cui rispondere, conversazioni a cui partecipare, persone da ascoltare. Adesso, certo, mi è più facile accompagnare mio figlio dal pediatra o partecipare ai suoi saggi di fine anno, ma continuo a non poter andare a prenderlo a scuola, mi porterebbe via troppo tempo. Sulla possibilità di realizzarsi personalmente invece sono assolutamente d’accordo. L’azienda tradizionale è ancora legata ad un’organizzazione basata sul presenzialismo e sulla sterilità, nel senso che se fai un figlio la paghi, chi più chi meno. Se però sei tu il capo…
Inventarsi un lavoro e’ una possibilita’ “da donne” per riuscire a conciliare la vita personale e la realizzazione professionale, costruendosi anche i propri ritmi?
FLAVIA
Diffido molto delle “soluzioni per donne”. Nel mondo che vorrei non dovrebbero esistere, nel senso che anche gli uomini aspirerebbero al lavoro che amano, con ritmi umani, con spazi personali per sè e per la famiglia. E poi lo spirito imprenditoriale non ha genere: per avviare un’attività occorrono tempo e impegno, tale che la testa non stacca mai. Si guadagna forse tempo fisico, si lavora anche da casa, ma si perde sicurezza e si corrono rischi. Invece l’imprenditoria femminile rischia di essere vista come il lavoretto per quelle che non ce la fanno ad andare a prendere il bambino all’asilo, e questo non mi va molto giù.
GIULIANA
Certo che è una possibilità anche per le altre donne. Però attenzione ai falsi miti: non è facile, ci sono dei costi da sostenere, non ci sarà uno stipendio in banca tutti i mesi, ci vorrà tempo da dedicare e un sacco di pazienza anche da parte delle persone che ci stanno attorno. Io mi ritengo fortunata, da questo punto di vista. Anche se non è affatto una passegggiata.
Secondo voi e’ una possibilita’ relativamente accessibile anche per altre donne? (in termini di costi, di impegno speso, di possibilita’ di conciliazione?)
FLAVIA
E’ possibile e accessibile se si hanno idee e passioni da coltivare, sapendo che si cresce e si riesce soprattutto attraverso i fallimenti: concetto, questo, molto diffuso nella cultura anglosassone, e ancora tabù da noi.
GIULIANA
Per re-inventarsi un lavoro serve un’idea, innanzitutto. E le persone con le quali realizzarla. E serve liberarsi dall’emotività tutta femminile con la quale si costruiscono compagini basate sul fatto di essere amiche: se si lavora si lavora, le garanzie che si cercano nelle persone che ti accompagnano sono relative alla loro professionalità, non all’affetto che si prova reciprocamente (quello verrà dopo). Serve determinazione, consapevolezza dei rischi che si corrono e capacità di non abbattersi al primo ostacolo, e neanche al secondo o al terzo. Serve, anzi fa comodo, un compagno/una compagna che comprenda e ti sostenga – condizione questa senza la quale diventa una battaglia continua. Certo che è una possibilità anche per le altre donne. Però attenzione ai falsi miti: non è facile, ci sono dei costi da sostenere, non ci sarà uno stipendio in banca tutti i mesi, ci vorrà tempo da dedicare e un sacco di pazienza anche da parte delle persone che ci stanno attorno. Io mi ritengo fortunata, da questo punto di vista. Anche se non è affatto una passeggiata.
Il dibattito nel gruppo Facebook è davvero intenso e fertile, i link permettono discussioni, che diventano idee e azioni. Magari sono davvero piccole cose ma, come mi ha suggerito F., “a volte il problema sono proprio le sfumature. Così il post del direttore di Vanity Fair su “Donne che odiano le mamme” ci ha ingaggiato e fatta venire voglia di dire qualcosa, che riassume la voce di molte, ed è parte di una riflessione importante.
Eccola qui.
Gentile direttore,
questa lettera arriva dalla lettura del suo post sul blog, relativa al tema “donne contro donne”.
Sul nostro gruppo Facebook, che al contrario si chiama Donne PER Donne (di cui il link in calce), e il suo post ci ha offerto molti spunti di discussione, che vorremmo condividere con lei, e i suoi lettori/lettrici.
Mettiamola così, noi donne non abbiamo un problema. Il problema lo abbiamo tutte e tutti, uomini e donne.
Il risentimento delle donne contro le donne potrebbe avere svariati perché, sui quali spendere qualche articolo davvero interessante:
quando le donne fanno la guerra tra loro, e quando no? In che contesti, situazioni, momenti storici, politici o culturali?
Insomma sarebbe molto più stimolante provare a smontare questo luogo comune, fino ad intravverderne il senso.
Poi lasciare, come sempre, che chi ama la vis polemica per sentirsi viva/o continui liberamente la sua strada.
Restiamo convinte che, tra donne, troveremmo meno inimicizie del previsto.
Certo nessuno si immagina un Eden al femminile, ma pare plausibile che una atmosfera lavorativa piacevole, eppure capace di dialettica resti un punto a favore dei luoghi di lavoro, e del lavoro stesso.
Detto ciò le inoltro, dal nostro spazio di riflessione collettiva, un pò di pensieri sparsi, nati dalla lettura della sua mail, frutto discussione animata, ricca e variegata.
(Il gruppo è nato proprio dalla voglia iniziale di ragionare sullo stereotipo delle donne nemiche delle donne, e poi dalla voglia di cercare tutte quelle prassi che dimostrino la possibilità di allearsi e innovare: cultura, lavoro, ricerca, famiglia …)
Alcuni partecipanti hanno trovato limitante il parlare solo di maternita’:
1 – “tutto giusto, ma vi rendete conto che stiamo ancora parlando di maternità? Invece dovremmo ormai discutere di genitorialità e di supporto alle famiglie. Perché i figli non nascono per gemmazione dalla madre, ma sono anche di un padre, maschio, lavoratore.”
2 – “secondo me in Italia manca totalmente la cultura della genitorialità … Non c’è cultura della genitorialità sul posto di lavoro, vacanza, vita quotidiana, conciliazione e nemmeno in società: i figli sono percepiti come qualcosa di esterno alla realtà degli adulti, un ostacolo per la carriera, qualcosa di cui non ci si deve lamentare. Hai voluto la bicicletta? Ora pedala. Solo che troppo spesso si dimentica che i figli non sono biciclette ma esseri umani, gli adulti e genitori di domani. La nostra società sta avvizzendo sotto il peso della mancanza di questa cultura, secondo me”
Altri hanno puntato il riflettore sulle pratiche e prassi del mondo del lavoro
3 – “di una cosa sono comunque certa, in un posto di lavoro dove non viene adeguatamente perseguita la pronta sostituzione di una lavoratrice in gravidanza o un sostegno all’unità operativa dove accadono astensioni dal lavoro per malattia dei familiari (e non vorrei allargare il dibattito, anche malattia del lavoratore) si innescano con più facilità meccanismi ‘espulsivi’ della collega che viene percepita come un peso. questo però non toglie responsabilità a quelle persone che si comportano con ostilità più o meno diretta nei confronti delle colleghe ‘mammine’.”
4 – “E’ evidente che in vanity Fair la cultura del lavoro è che la maternità è una fase di interruzione dal lavoro, che comporta inevitabili inconvenienti, ma se accolta con intelligenza garantisce alla redattrici di tornare al lavoro motivate. La mia domanda inevitabile è cosa garantisce, e permette per una azienda, e par chi lavora di vedere maternità e anche genitorialità come risorse in prospettiva e non solo come fonte di fastidio?”
Altri ancora hanno ritenuto tutto sommato obsoleta la visione conflittuale fra donne, e vorrebbero leggere di nuove prospettive …
5 – ” Continuare a calcare la mano su questa questione delle donne che non si amano e che si fanno guerra per ogni cosa mi sembra quasi strumentale. E’ la ripetizione di un messaggio che diventa sempre più reale perchè viene ripetuto n volte. Non ho neanche più tanta voglia di ripeterlo. Io non ci sto ad essere raffigurata così!”
6 – “non mi piace pensare a schieramenti “contro” (che poi sono alla base anche delle logiche del “donne contro donne,come nell’articolo madri contro non-madri) Sono d’accordo che si debba ripensare ad aspetti culturali legati alla maternità e alla paternità, ma partendo dalla costruzione di alleanze, dal partire dal vedere che una buona legge sulla maternità vada in primo luogo fatta applicare perchè permette qualcosa di importante per tutti (datori di lavoro compresi).”
“
Chiudiamo quindi con una domanda e una riflessione, che affidiamo a lei, alla sua redazione, alle lettrici …
Se nella sua (o in un’altra) azienda azienda/redazione la maternità/genitorialità diventa assunta come un diritto, un valore, un bene sociale collettivo di cui – tutti – beneficeremo in futuro … la domanda minima e indispensabile è:
come ci si è arrivati?
Si è trovato tutto già fatto, c’erano persone (uomini/donne) già sensibilizzate, è il boss/il direttore/il capo (lei singolo direttore) che ha portato questa cultura e questo valore? E se lo ha fatto, in che modo si è mosso per arrivarci?
Analizzare e identificare questi elementi permetterebbe di non mitizzare e non cadere nel gioco del paternalismo (il direttore che è stato bravo), o dell’ammirazione incondizionata (spesso evidente nelle lettere delle lettrici). Aspetti forse marginali ma a volte il problema sono proprio le sfumature.
Forse risulta difficile credere che un cambiamento importante sia frutto solo del caso o della super-competenza di una sola persona, (sorry); spesso invece risulta frutto di un lungo lavoro di introduzione di buone pratiche (anche non sempre consapevoli).
Comunque se questo cambiamento fosse merito del suo approccio al lavoro, o frutto di uno stile singolare, di un processo di cambiamento o di una consapevolezza significativa, questo ci interessa davvero molto. E interesserebbe anche dal punto di vista culturale tutti, uomini e donne, perchè sarebbe davvero un approccio al lavoro inconsueto, in Italia e in questi giorni.
Diventa quindi molto importante non solo che quest’atmosfera esiste, ma come si e’ determinata, (e quindi se l’effetto è replicabile).
Grazie
#donnexdonne sui socialnetwork alla ricerca di buone prassi al femminile