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Barbablu mode: on

Si sa che le fiabe contengono spesso quella saggezza ancestrale che ci illumina la strade, e poi  altre volte veicolano alcuni modelli culturali o peggio morali che “devono” esser insegnati; qualche volta onorevolmente ancora invece seminano dubbi e domande (sai fai attenzione al lupo), paventando i rischi, o mostrando strategie necessarie al vivere.

Barbablu’ è una di quelle fiabe che insegnano qualcosa che non viene mai insegnato a sufficienza, fa parte di quelle storie angosciose che vanno ascoltate e insegnate per comprendere quanto accade attorno all’amore e ai legami tra uomini e donne, eppure non è facile leggerla ai bambini, truculenta e sanguinaria quant’è.

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Barbablù uccide tutte le sue mogli, ma non prima di aver creato attorno a loro un clima mistificatorio, creato ad arte, per condurle nella trappola che va poi costruire per loro, trappola mortale e annichilente, agita fisicamente o psicologicamente.

Barbablù non ha la barba colore della notte, non lo si riconosce da quello, ma da mille altri segnali.

Ci sarebbe da dire svegliatevi bambine, e madri e donne e padri  e uomini, sedetevi a terra e fate capire così che siete altro, mostrate chi – restando in piedi- dimostra di essere Barbablù, osservatelo e svelatelo, perché non abbia a seminare altre vittime.

Grazie allo stimolo di Barbara Summa e delle triste cronaca nera che ci mostra sempre a posteriori le imprese di Barbablù, che ben lungi dall’essere personaggio di favola, è uomo e marito e padre e magari vicino di casa.

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Ecco un elenco (tratto dal sito http://www.altalex.com/index.php?idnot=44218) di alcuni elementi che aiutano a identificare Barbablu’, non è certo il meglio della letteratura scientifica in materia, ma nemmeno una fiaba lo è; ciononostante mi è sembrato, pure nella sua iper semplificazione, un primo modo per sostare ad osservare i campanelli di allerta che suonano attorno al Barbablù di turno.

 

I comportamenti significativi rilevati nella stessa persona sono i seguenti:

– Mancanza di affetto e comprensione;

– Incapacità di amare e di provare pietà verso qualcuno.

– Cinismo

– Istigazione al suicidio.

– Introversione e alone di mistero. (di lui non si sa mai nulla; ha anche una casella postale personale).

– generalmente taciturno, mentre è molto loquace se deve difendere idee politiche, sportive, ecc.

– eloquio solitario talvolta ad alta voce, mentre sovente costringe gli altri a tendere l’orecchio per ascoltarlo.

– presunzione: vuole imporre la propria volontà e le proprie idee.

– criticità su tutto: è difficile che parli bene di qualcuno o di qualcosa.

– Asocialità quando non lavora: non frequenta nessun amico.

– Bravura nel salvare le apparenze con gli estranei, avendo una doppia personalità.

– Opportunismo e sfruttamento:usa chi può essergli utile e poi non ha riconoscenza.

– Estremismo:passa facilmente da un eccesso all’altro.

– Superstizioso:spesso fa riti scaramantici.

– diffidenza e sospetto verso tutti: attribuisce intenzioni infondate agli altri.

– Cattiveria e perfidia: non si impietosisce dinanzi a nulla, anzi sembra goderne.

– Irascibilità e litigiosità: si manifestano con un tono di voce irritato o con un silenzio ostile o un’occhiata aggressiva.

– Egoismo ed ingratitudine: riceve del bene e ricambia facendo del male.

– Avarizia con la moglie: se fa regali vistosi o concessioni è per dimostrare agli altri che la tratta bene

– Falsità: sa mentire bene e nega sempre la verità, anche se evidente.

– Furbizia e astuzia: calcola tutto minuziosamente e cerca di non commettere errori.

– Prepotenza e rispettosità : vuole avere ragione su tutto e guai a chi gli si oppone.

– Vendicativo anche con chi non lo merita perché non gli ha fatto nulla di male.

– Testardaggine: vuole sempre avere l’ultima parola.

– Credente ma a modo suo:talvolta bestemmia.

– Spericolatezza nella guida dell’auto: in alcune strade arriva ai 240 Km all’ora.

– Esibizionista: deve essere sempre il migliore

– udito e spirito di osservazione molto accentuati.

– eccellente memoria e ottima cultura generale.

 

 


 

Barbablù di Charles Perrault

C’era una volta un uomo che aveva case bellissime in città e in campagna, vasellame d’oro e d’argento, suppellettili ricamate e berline tutte d’oro; ma, per sua disgrazia, quest’uomo aveva la barba blu e ciò lo rendeva così brutto e spaventoso che non c’era ragazza o maritata la quale, vedendolo, non fuggisse per la paura.
Una sua vicina, dama molto distinta, aveva due figliole belle come il sole. Egli ne chiese una in matrimonio, lasciando alla madre la scelta di quella che avesse voluto dargli. Ma nessuna delle due ne voleva sapere, e se lo rimandavano l’una all’altra, non potendo risolversi a sposare un uomo il quale avesse la barba blu. Un’altra cosa poi a loro non andava proprio a genio: era ch’egli aveva già sposato parecchie donne, e nessuno sapeva che fine avessero fatto.
Barbablù, per far meglio conoscenza, le condusse, insieme alla madre, a tre o quattro delle loro migliori amiche, e ad alcuni giovanotti del vicinato, in una delle sue ville in campagna, ove rimasero per otto giorni interi. Non si fecero che passeggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini e merende: non si dormiva neppure più, perché si passava tutta la notte a farsi degli scherzi l’uno con l’altro; insomma, tutto andò così bene che la minore delle due sorelle cominciò a trovare che il padron di casa non aveva più la barba tanto blu, ed era in fondo una gran brava persona. Non appena furono tornati in città, il matrimonio fu concluso.
In capo a un mese, Barbablù disse a sua moglie ch’egli era costretto ad intraprendere un viaggio, di almeno sei settimane, per un affare assai importante; la pregava di stare allegra durante la sua assenza: invitasse pure le sue amiche più care, le portasse in campagna, se voleva; insomma, pensasse sempre a passarsela bene.
«Ecco qui», le disse, «le chiavi delle due grandi guardarobe; ecco quelle del vasellame d’oro e d’argento che non si adopera tutti i giorni; ecco quelle delle mie casseforti dove tengo tutto il mio denaro, quelle delle cassette dove sono i gioielli, ed ecco infine la chiave comune che serve ad aprire ogni appartamento. Quanto a questa chiavetta qui, è quella che apre lo stanzino in fondo al grande corridoio a pianterreno; aprite pure tutto, andate pure dappertutto, ma quanto allo stanzino, vi proibisco di mettervi piede, e ve lo proibisco in modo tale che, non sia mai vi entraste, dalla mia collera vi potete aspettare ogni cosa!»
Lei promette d’ubbidire scrupolosamente agli ordini avuti e lui dopo averla abbracciata, sale in carrozza e parte per il suo viaggio.
Le vicine e le amiche del cuore non aspettarono che le si mandasse a chiamare per venire a trovare la sposina, tant’erano impazienti di vedere tutte le ricchezze della casa di lei, e non avendo osato di venirvi quando c’era il marito, sempre per via di quella barba blu che tanto le spaventava. Eccole subito a correre per tutte le sale, una più bella e ricca dell’altra. Salirono poi alle guardarobe dove non avevano occhi abbastanza per ammirare la quantità e la bellezza degli arazzi, dei letti, dei divani, degli stipi, dei tavolinetti, delle tavole grandi e degli specchi, dove ci si poteva specchiare dalla punta dei piedi fino ai capelli e le cui cornici, alcune di cristallo, altre d’argento o d’argento dorato, erano le più ricche e splendide che mai si fossero vedute. Non la finivano più di portare alle stelle e invidiare la fortuna della loro amica, ma questa non provava alcun piacere nel vedere tutte quelle ricchezze, perché non vedeva l’ora d’andare ad aprire lo stanzino a pianterreno.
La curiosità la spinse a un punto che, senza considerare quanto fosse sconveniente di lasciare lì, su due piedi, le amiche, ella vi andò, scendendo per una scaletta segreta e con una precipitazione tale che, due o tre volte, fu lì lì per rompersi l’osso del collo. Giunta dinanzi alla porta dello stanzino, esitò un momento prima d’entrarci, pensando alla proibizione del marito e considerando che la propria disubbidienza avrebbe potuto attirarle qualche guaio; ma la tentazione era così forte che non poté vincerla; prese la chiavetta e aperse con mano tremante la porta dello stanzino.
Dapprincipio ella non vide nulla, perché le finestre erano chiuse; ma a poco a poco cominciò ad accorgersi che il pavimento era tutto coperto di sangue rappreso, nel quale si rispecchiavano i corpi di parecchie donne morte e appese lungo le pareti. (Erano tutte le donne che Barbablù aveva sposato e che aveva sgozzato una dopo l’altra). Per poco non morì dalla paura, e la chiave dello stanzino, che ella aveva ritirato dalla serratura, le cadde di mano. Dopo essersi un tantino riavuta, raccolse la chiave, richiuse la porta e salì nella sua camera per riflettere un poco, ma non le riusciva tant’era la sua agitazione.
Essendosi accorta che la chiave dello stanzino era macchiata di sangue, la ripulì due o tre volte, ma il sangue non se ne andava via; allora la lavò e perfino la strofinò con la rena e col gesso: il sangue era sempre lì, perché la chiave era fatata, e non c’era mezzo di pulirla perbene: se si levava il sangue da una parte, rispuntava dall’altra.
La sera stessa Barbablù tornò dal suo viaggio; disse che per strada aveva ricevuto una lettera, dove gli si diceva che l’affare per il quale era partito, era stato già concluso in modo vantaggioso per lui. La moglie fece tutto il possibile per dimostrargli ch’ella era felice del suo pronto ritorno.
Il dì seguente egli le chiese le chiavi, lei le consegnò, ma con una mano così tremante che lui indovinò senza fatica tutto l’accaduto.
«Come mai», le chiese, «la chiavetta dello stanzino non si trova qui, insieme alle altre?»
«Forse», lei rispose, «l’ho lasciata in camera, sul mio tavolino.»
«Non tardate a restituirmela», disse Barbablù.
Dopo qualche inutile indugio, non si poté far a meno di portare la chiave. Barbablù, dopo averla ben guardata, disse alla moglie:
«Come mai c’è del sangue su questa chiave?».
«Non ne so nulla», rispose la poverina, più pallida della morte.
«Non ne sapete nulla?», replicò Barbablù, «ma io lo so benissimo! Siete voluta entrare nello stanzino! Ebbene, signora, adesso vi tornerete e prenderete posto accanto a quelle dame che avete visto lì dentro.»
Ella si gettò ai piedi del marito piangendo e chiedendogli perdono, con tutti i segni d’un sincero pentimento per la sua disubbidienza. Bella e addolorata com’era, avrebbe intenerito un macigno; ma Barbablù aveva il cuore più duro d’un macigno.
«Bisogna morire, signora», le disse, «e senza indugi.»
«Dato che devo morire», ella rispose guardandolo con gli occhi pieni di lagrime, «datemi almeno un po’ di tempo per raccomandarmi a Dio.»
«Vi accordo un mezzo quarto d’ora», rispose Barbablù, «ma non un minuto di più.»

Rimasta sola, ella chiamò sua sorella e le disse: «Anna», era questo il suo nome, «Anna, sorella mia, sali, ti prego, sali in cima alla torre per vedere se i nostri fratelli, per caso, non stiano arrivando; mi avevano promesso di venire a trovarmi quest’oggi, e se li vedi, fa’ loro segno di affrettarsi».
La sorella Anna salì in cima alla torre e la povera infelice le gridava di quando in quando: «Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?».
E la sorella Anna le rispondeva: «Vedo soltanto il sole che dardeggia e l’erba che verdeggia».
Intanto Barbablù, brandendo un coltellaccio, gridava a sua moglie, con quanto fiato aveva in corpo: «Scendi giù subito, o salgo su io!».
«Ancora un momentino, per piacere», gli rispose la moglie; e, subito dopo, riprese con voce soffocata:
«Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?». E la sorella Anna rispondeva: «Vedo soltanto il sole che dardeggia e l’erba che verdeggia».
«Scendi giù subito», gridava Barbablù, «o salgo su io!»
«Adesso vengo», rispondeva la moglie; e poi gridava: «Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?».
«Vedo…», rispondeva la sorella Anna, «vedo un gran polverone che viene da questa parte.»
«Sono i nostri fratelli?»
«Ahimè no! sorella mia! È soltanto un branco di pecore!»
«Insomma, vuoi scendere o no?», sbraitava Barbablù.
«Ancora un momento!», rispondeva la moglie; e poi gridava:
«Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?».
«Vedo…», rispose la sorella, «vedo due cavalieri che vengono da questa parte, ma sono ancora molto lontani… Dio sia lodato!», esclamò un attimo dopo, «sono proprio i nostri fratelli! Faccio loro tutti i segni che posso, perché si sbrighino a venire.»
Barbablù si mise a gridare così forte da far tremare la casa. La povera donna scese giù da lui e, tutta piangente e scarmigliata, andò a gettarsi ai suoi piedi.
«Inutile far tante storie!», disse Barbablù, «dovete morire!» Poi, afferrandola con una mano per i capelli, e con l’altra brandendo in aria il coltellaccio, si accinse a tagliarle la testa. La povera donna, volgendosi verso di lui e guardandolo con lo sguardo annebbiato, lo pregò di concederle un ultimo istante per potersi raccogliere.
«No», lui disse, «e raccomandati a Dio!» Poi, alzando il braccio…
A questo punto, bussarono così forte alla porta di casa che Barbablù si fermò interdetto. Fu aperto, e subito si videro entrare due cavalieri che, sguainando la spada, si gettarono su Barbablù.
Lui riconobbe ch’erano i fratelli di sua moglie, uno dragone, l’altro moschettiere, e allora si diede a fuggire per mettersi in salvo; ma i due fratelli gli corsero dietro così lesti che lo acciuffarono prima ancora che avesse potuto raggiungere la scala. Lo passarono da parte a parte con le loro spade e lo lasciarono morto. La povera donna era anche lei quasi morta come il marito e non aveva la forza di alzarsi per abbracciare i suoi fratelli.
Si scoperse che Barbablù non aveva eredi; così la moglie diventò padrona d’ogni suo avere. Ne adoperò una parte a maritare la sorella Anna con un giovane cavaliere che l’amava da molto tempo; un’altra parte a comperare il grado di capitano ai fratelli; e il rimanente, a maritarsi con un galantuomo che le fece dimenticare i brutti giorni che aveva passati con Barbablù.

 

 


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Una vecchia che fa ridere

Avevo letto questa storia su di un libro quando il femminismo non era più di moda e nemmeno stava tornando di moda, come succede in questo giorni.

Ma non è questo il punto.  In ogni caso nasceva  come trascrizione di un dibattito in un gruppo di discussione, tutto al femminile, sui modelli femminili, con qualche passaggio dalla analisi junghiana.

Si narrava la storia di Baubo, vecchia un pò laida che aveva mostrato l’oscenità del suo sesso, scostando la veste … davanti a Dementra.

Dea in lutto e che lasciava la terra afflitta e sterile a causa dell’assenza della figlia Persefone, sposa rapita allo sguardo della madre, dal dio degli Inferi: Ade.

La dea negava alla terra e agli uomini vita e nutrimento a causa del dolore e del lutto. Privata lei stessa di gioia e sorriso, li negava agli altri.

Baubo con il gesto profano, irriverente ed osceno le aveva strappato un sorriso, e la dea aveva ricominciato a vivere.

Ancora oggi, perso il libro nei mille traslochi, ricordo – non il dibattito – ma la storia.

Che mi è cara e preziosa, ogni volta che penso al dolore, alla vecchiaia e alle possibilità infinite offerte da riso e ironia.

Info su Baubo da wikipedia

Il post appartiene anche concettualemente al progetto del nuovo blog che per ora troverete, seguendo il link,  ancora in versione non definitiva …


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Furie o Erinni, Parche o Moire, Gorgoni, Ananke (INTRO) Violenza sulle donne 1:5

Introduzione - Primo post di cinque.
Inquadramento alle figure femminili mitologiche che rappresentano femminilità forte e non violata.
Un modo di trovare nuovi riferimenti culturali, narrativi, storici che permettano di vedere in sè stesse
la possibilità di essere IN difesa e non donne indifese. Così le parche, le furie e le figure mitologiche, 
citate nel primo dei 5 post, prendono la loro collocazione ... nell'essere spesso implacabili ed ineluttabili, 
e possono entrare nell'immaginario come riferimenti positivi).
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LE FURIE O ERINNI Le Erinni (in greco: Ερινύες) sono, nella mitologia greca, le personificazioni femminili della vendetta (Furie nella mitologia romana).

Secondo la leggenda esse nacquero dal sangue di Urano, fuoriuscito quando Crono lo evirò, mentre un’altra tradizione le dice figlie della Notte.

Erano tre sorelle demoniache abitatrici degli inferi: Aletto, Megera e Tisifone. Secondo la più accreditata interpretazione, esse rappresentavano il lancinante rimorso che scaturiva dai fatti di sangue più efferati.

Al fine di placarle, vennero chiamate anche Eumenidi (ossia, le “benevole”), si porgevano loro varie offerte e ad esse si sacrificavano le pecore nere. Le Erinni erano anche indicate con altri epiteti, come SemnaiPotnie (“venerabili”), Manie (“folli”) e Ablabie (“senza colpa”).

Venivano rappresentate come geni alati, i capelli formati da serpenti, recanti in mano torce o fruste.

Il loro compito era quello di vendicare i delitti, soprattutto quelli compiuti contro la propria famiglia, torturando l’assassino fino a farlo impazzire.

Esse sono chiamate anche Dire da Virgilio

Spesso presenti nella cultura classica – emblematico, in proposito, il ruolo che assumono nell’Orestea di Eschilo – ritornarono sovente, come riferimento colto, tanto nella cultura medievale – Dante le indica come le custodi della città infernale di Dite [2] – quanto in quella moderna e contemporanea, pur se, in quest’ultima, in modo abbastanza sporadico. Le si trovano anche nel romanzo “Le Benevole” di Jonathan Littell.

Nella Medea di Euripide il coro invoca il raggio divino affinché fermi, ad evitare l’incombente duplice infanticidio, la mano di Medea, posseduta dalla sanguinaria Erinni, che le infonde lo spirito di vendetta.

LE PARCHE O MOIRE

«Ma perché lei che dì e notte fila,
non gli aveva tratta ancora la canocchia,
che Cloto impone a ciascuno e compila…»

(Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXI, 25-27)

Le Parche (in latino Parcae), nella mitologia romana, sono il corrispettivo delle Moire greche.

In origine si trattava di una divinità singola, Parca, dea tutelare della nascita. Successivamente le furono aggiunte Nona e Decima, che presiedevano agli ultimi mesi di gravidanza.

Figlie di Zeus e Temi, la Giustizia. Esse stabilivano il destino degli uomini. In arte e in poesia erano raffigurate come vecchie tessitrici scorbutiche o come oscure fanciulle.

In un secondo momento furono assimilate alle Moire (Cloto, Lachesi ed Atropo) e divennero le divinità che presiedono al destino dell’uomo. La prima filava il tessuto della vita, la seconda dispensava i destini, assegnandone uno ad ogni individuo stabilendone anche la durata, e la terza, l’inesorabile, tagliava il filo della vita al momento stabilito. Le loro decisioni erano immutabili, neppure gli dei potevano cambiarle.

Venivano chiamate anche Fatae, ovvero coloro che presiedono al Fato (dal latino Fatum ovvero “destino”).

Nel Foro, in loro onore, erano state realizzate tre statue, chiamate tria Fata (“i tre destini”).

MOIRE

« Notte poi partorì l’odioso Moros e Ker nera
e Thanatos (morte, generò il Sonno, generò la stirpe dei Sogni;
non giacendo con alcuno li generò la dea Notte oscura;
e le Esperidi che, al di là dell’inclito Oceano, dei pomi
aurei e belli hanno cura e degli alberi che il frutto ne portano;
e le Moire e le Kere generò spietate nel dar le pene:
Cloto e Lachesi e Atropo, che ai mortali
quando son nati danno da avere il bene e il male,
che di uomini e dei i delitti perseguono;
né mai le dee cessano dalla terribile ira
prima d’aver inflitto terribile pena, a chiunque abbia peccato.
»(Teogonia di Esiodo, vv. 211-222)

Le Moire è il nome dato alle figlie di Zeus e di Temi o secondo altri di Ananke[1]. Ad esse era connessa l’esecuzione del destino assegnato a ciascuna persona e quindi erano la personificazione del destino ineluttabile.

Erano tre: Cloto, che filava lo stame della vita; Lachesi, che lo svolgeva sul fuso e Atropo che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile. La lunghezza dei fili prodotti può variare, esattamente come quella della vita degli uomini. A fili cortissimi corrisponderà una vita assai breve, come quella di un neonato, e viceversa. Si pensava ad esempio che Sofocle, uno dei più longevi autori greci (90 anni), avesse avuto in sorte un filo assai lungo.

Si tratta di tre donne dall’anziano aspetto che servono il regno dei morti, l’Ade.
Il sensibile distacco che si avverte da parte di queste figure e la loro totale indifferenza per la vita degli uomini accentuano e rappresentano perfettamente la mentalità fatalistica degli antichi greci.

Pindaro, in epoca più tarda, le indicò invece come le ancelle di Temi, al suo matrimonio con Zeus.

Esse agivano spesso contro la volontà di Zeus. Ma tutti gli dei erano tenuti all’obbedienza nei loro confronti, in quanto la loro esistenza garantiva l’ordine dell’universo, al quale anche gli dei erano soggetti.

Si dice anche che avessero un solo occhio grazie al quale potevano vedere nel futuro e che spartivano a turno tra loro.


LE GORGONI

Le Gorgoni sono figure della mitologia greca, erano figlie di Forco e di Ceto.

Erano tre sorelle, Steno, Euriale e Medusa. Di aspetto mostruoso, avevano ali d’oro, mani con artigli di bronzo, zanne di cinghiale e serpenti al posto dei capelli e la loro bruttezza era tale da impietrire chiunque le guardasse. La gorgone per antonomasia era Medusa, la più famosa delle tre e loro regina, che, per volere di Persefone, era la custode degli Inferi.

A differenza delle sorelle era mortale. Il mito narra che Perseo, avendo ricevuto l’ordine di consegnare la testa di Medusa a Polidette, signore dell’isola di Serifo, si recò prima presso le Graie, sorelle delle Gorgoni, costringendole a indicargli la via per raggiungere le Ninfe. Da queste ricevette sandali alati, una bisaccia e un elmo che rendeva invisibili, doni ai quali si aggiunsero, uno specchio da parte di Atena e un falcetto da parte di Ermes.

Così armato, Perseo volò contro le Gorgoni e, mentre erano addormentate, guardandone l’immagine nello specchio divino di Atena per evitare di rimanere pietrificato, tagliò la testa a Medusa e la chiuse subito nella bisaccia delle Graie. Dal tronco decapitato di Medusa uscirono, insieme ai fiotti di sangue, il cavallo alato Pegaso e Crisaore, padre di Gerione.

Perseo donò la testa della gorgone alla dea Atena, la quale la fissò al centro del proprio scudo per terrorizzare i nemici.

ANANKE

Nella mitologia greca, Ananke (o Ananche) (greco Ἀνάγκη) era la personificazione del destino, della necessità inalterabile e del fato.

Ella era anche la madre di Adrastea e delle Moire[1]. Inizialmente era identificata con Adrastea stessa. Per Omero ed Esiodo appare come la forza che regola tutte le cose, dal moto degli astri ai fatti particolari dei singoli uomini.

Veniva adorata raramente ma aveva una certa importanza nei culti misterici come nell’ Orfismo.

Nella mitologia romana, venne chiamata Necessitas (“necessità”) ma rimase sempre un’allegoria poetica priva di un vero culto. Qualche volta è stata identificata con Dike, la giustizia e come opposto aveva Tyche, la fortuna. A Corinto condivideva un tempio con Bia la violenza.

I poeti sono concordi nel descriverla come un essere inflessibile e duro.

fonte WIKIPEDIA