Pensierino del mattino. Lavare i pavimenti è evidentemente una pratica zen, se ti apre la mente a pensieri nuovi, o rinnova pensieri impolverati.
Mentre in tv passa la pubblicità di una altro (un altro????) programma di mamme sulle mamme, con le mamme, per le mamme, nelle mamme, attorno e sotto le mamme.
Gasp! Un altro???
E già! Ma non è la stessa cosa che mi hanno detto le (ex) colleghe storiche, quelle che mi sono rimaste nel cuore, e con cui abbiamo fatto cose, per me, grandiose nell’inventare innovare il nostro lavoro, quando le ho invitate alla nostra serata da consulenti pedagogiche sulla maternità? Continua a leggere →
Una bella giornata trascorsa in università, ad un convegno, uno dei lussi di chi ha molto tempo e ancora si dispone ad imparare per poter lavorare.
Eternamente precaria, ma nella libera professione.
Non importa, sono tornata elettrizzata come una ragazza, con i neuroni lustri e sfavillanti; e nemmeno forse importa che a 48 anni non si faccia.
E non riesco ad immaginare me stessa nelle vesti di quelle docenti belle, ed eleganti, capaci di pensare il pensiero, di offrire stralci e squarci di pensieri che ci introducono ai mondi, al possibile, al pedagogico che è anche politico e culturale, ed etico e quotidiano; in bilico perfetto tra teoria disincarnata e prassi che si fa viva nel pensiero. Io sarò sempre una donna di pasta grezza tra pensiero che si fa corpo e corpo che si fa pensiero, parole che si fanno bit, e pensieri in forma digitale, ma che tengono il contatto con il corpo e la sua irriducibile complessità. Confusamente. Sarò e sono anche una blogger, se sono riuscita a capire ciò che rappresenta questo nome.
E perciò esser me stessa non è grave, oggi.
Dei meriti e delle criticità più tecniche ne proverò a scrivere nei blog pedagogici (famiglia a strati e ponti e derive) ma lì, in università, io ho portato a anche la me stessa- pontitibetani blogger – “ritrovandomi” nelle parole di Claudia de Lillo, meglio nota come Elasti, e di un paio di altri esploratori del web e dei media.
Il tema era la famiglia, ma la famiglia nei media e nei social media diventa anche attraversamento, smodellizazzione, confronto, dialogo, mondi, ricostituzione di nuovi modelli, caleidoscopio di mondi e forme, ridisegno dell’autorevolezza, passaggio culturale, autorità contestuale e non antecedente, categorie meno dense, restituzione di un nuovo luogo delle famiglia spaesata che trova nuove appartenenze, complessità, ambivalenza e co-costruzione. Tutte categorie che legittimano la necessità di capire sia lo spaesamento di tutti, che le strutture della modernità, per diventarne fruitori, utenti competenti alle scelte, non solo vittime nella dipendenza acritica o nella negazione assoluta.
Certo il mondo accademico ha esibito qualche resistenza, ma anche ed insieme ha condotto analisi e metanalisi di ampio respiro. Restituendo un incontro suggestivo tra cultura alta e cultura pop, ad occhio e croce una salto in avanti epocale.
Una necessità basilare tra chi lavora nella comunicazione e chi comunica per educare.
Essere identificati come vittime è una condizione che dovrebbe essere transitoria per chiunque, legata a precise circostanze. Non si è vittime per il solo fatto di esistere come femmine invece che come maschi, ma lo si è sempre di qualcosa o di qualcuno. Il tentativo di trasformare le persone in vittime permanenti a prescindere dalle circostanze costringe la vittima al ruolo di vittimizzata, che è un’altra forma di violenza, piú sottile e pervasiva, perché impone una condizione di passività che preclude la facoltà di riscattarsi.
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Qualunque sia la variante, la trama del racconto della morte femminile non cambia: con la morte la donna non è mai in un rapporto di protagonismo, ma sempre in quello di passiva conseguenza.
Mi colpí molto il modo in cui venne raccontata sui media popolari la doppia morte a breve distanza di due figure molto note del piccolo schermo italiano: Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. È noto che il popolare presentatore e attore sia morto per un blocco renale; ma quando cinque mesi dopo è morta anche la sua altrettanto nota vedova, i media hanno raccontato il suo decesso come se fosse una conseguenza diretta di quel lutto. «È morta di dolore», hanno scritto le riviste ad alta tiratura. «Senza Raimondo, stroncata dal dolore», titolò ancora piú esplicitamente un quotidiano, fornendo una interpretazione da romanzo d’appendice di una morte da crisi respiratoria. Lo stesso meccanismo mediatico aveva investito qualche anno prima un’altra doppia morte del mondo dello spettacolo, quella del regista Federico Fellini e dell’attrice Giulietta Masina: il primo è morto di ictus e cosí è stata data la notizia; invece la morte della consorte è stata annunciata dai quotidiani con lo stesso sobrio titolo che sarebbe toccato poi alla Mondaini: «È morta la Masina, stroncata dal dolore». Il fatto che l’attrice fosse da tempo in cura per un tumore non era evidentemente funzionale al quadro tragiromantico di una vita spezzata dalla scomparsa dell’amato.
Questi due esempi non fanno statistica, ma bastano a mettere a fuoco la tendenza mediatica a rappresentare l’uomo che muore come un dignitoso protagonista attivo del suo ultimo istante, lasciando alla donna il compito di morire passivamente (e spesso in modo scomposto, «distrutta, stroncata, annientata, devastata, uccisa» dal dolore), nel ruolo di vittima o al massimo di macabra comprimaria.
Amazzone ferita - Fritz von Stuck, 1903
In questo orizzonte solo l’uomo può «morire», la donna invece «viene uccisa». Perché questo squilibrio costante tra soggetto attivo e soggetto passivo sia possibile, spesso occorre che la narrazione neghi le evidenze contrarie, per giungere fino a mistificare la realtà, secondo un meccanismo che non è certo un brevetto dei media italiani.