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Cosa fatta … capo ha!

I lavori estivi e molto zen della casa stanno terminando ma intanto la scrittura si è esternata qui e la, soprattutto le avorativamente parlando.

Faticacce indubbie, ma son soddisfazioni.

Donne Pensanti: il magazine e il mio primo articolo

Ho messo mano anche a questo 

Mamme Acrobate: pensieri scolastici

Per finire c’è un altra idea un pò folle ma merita un articolo a parte.


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storie di ordinaria educazione: tra cibo e rischio

Le storie: le trovate qui o qui come pdf

Perchè le storie: l’agorà 

Il tema:

Rischio, nutrimento ed educazione –  Agorà del 30 giugno 2011

Riflessioni di lancio

Chi non risica non rosica. Capita spesso che i calembour giochino non solo con la struttura della frase, ma anche con la forma delle parole. “Il troppo stroppia” è uno dei calembourpiù popolari ed esemplare in proposito: dice che l’eccesso produce mostri, storpia, appunto. E per rendere meglio l’idea, applica a se stesso il principio che esprime, storpiando il verbo nella proposizione e facendolo assomigliare foneticamente all’aggettivo sostantivato “troppo”. Dunque, “chi non risica non rosica” compie la stessa operazione: chi sarebbe quel “chi” che “non rosica”, ovvero non mastica, ovvero non mangia? Chi non rischia. Ovvero, se si vuol mangiare occorre correre qualche rischio, questo ci dice il detto popolare. E lo dice con tale forza da trasformare il verbo “rischiare” nel verbo eufonico “risicare”, che riassume in sè sia il rischiare che il rosicare, ovvero quello che intende fare il detto nel suo insieme.

Il cibo, anzi il nutrimento inteso come l’atto del nutrirsi, e il rischio appaiono strutturalmente connessi. E in molti modi. Tranne nel caso della manna, biblica eccezione che conferma la regola, il cibo non cade dal cielo: occorre procurarselo. E dalla cacciata dall’Eden in poi, farlo vuol dire fatica. Ma la fatica è anche rischio se non produce risultati, dunque il compito di nutrirsi corre il rischio del fallimento: perchè è sempre all’orizzonte la caccia infruttuosa, il raccolto andato male, la carestia, ma anche perchè ci si può cibare degli alimenti sbagliati, o nel modo sbagliato, o nel momento sbagliato e ciò vale per la nostra opulenta tavola contemporanea, quanto per gli umani del paleolitico: sono cambiati solo i fattori di rischio. Dunque per rosicare occorre rischiare per avere qualcosa da rosicare, ma anche rischiare con l’atto stesso del rosicare, mai definitivamente al sicuro. Continua a leggere


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Di scuola e di ruolo – dopo il 12 aprile 2011

tratto da una intervista Maria Pia Veladiano, insegnante, laureata in filosofia e teologia

Lei è un’insegnante. Uno dei personaggi positivi de ‘La vita accanto’ è rappresentato proprio dalla maestra Albertina. In che modo è cambiato il ruolo dell’insegnante in Italia?

Nell’ultimo decennio l’insegnante è stato ed è ancora oggetto di una sistematica operazione di demolizione del riconoscimento sociale che, invece, lo aveva accompagnato nel secolo scorso e lo aveva aiutato nel suo difficile lavoro. Oggi tutto è più complesso, perché la classe è un piccolo mondo, dove le differenze sono meravigliose e faticose insieme. I confronti un po’ passatisti fra gli insegnanti di un tempo e quelli odierni non hanno senso: nelle classi, un tempo, non entravano i disabili, chi non stava al passo dei programmi veniva escluso senza appello. C’è stato un momento in cui la scuola è stata accompagnata dalla fiducia della comunità e in certa misura anche della politica, che ha creduto nella sua vocazione all’integrazione, al suo essere a servizio della cultura intesa come capacità critica di conoscere la complessità del mondo. Oggi si colpisce la scuola perché fa paura la libertà del pensare e fare l’insegnante è più difficile. Quel che resta è la possibilità di conquistarsi un prestigio personale, individuale. Ma il riconoscimento sociale non c’è più.

Giusto e vero. Tutto o quasi.

Mi assumo la voce della polemica di chi pratica l’educazione, con un ruolo professionale ancora più misconosciuto di quello dell’insegnante, a poco più di 1000 euro al mese, con altrettanta vita da stra_precario. Gli educatori professionali, misconosciuti anche dagli insegnanti stessi.

Va da se che occuparsi di disabilità, tossicodipendenza, malattia mentale, povertà, migranti, minori a rischio di devianza, carcere … rappresenta un autogol in termini di rappresentabilità sociale.

L’educatore non vale nulla socialmente, almeno quanto la sua utenza. E’ un paradosso e una provocazione si intende.

Perchè ufficialmente ci si dice che le marginalità sociali hanno un valore e sono portatrici di diritti, vanno tutelate, protette, e fatte crescere verso occasioni di vita migliore.

Ma restano ancora un pò marginali.

Socialmente depresse.

Socialmente depressi restano quindi anche gli educatori, i loro stipendi, la considerazione sociale. Anche se qualcuno ha due lauree, o le specializzazioni, i master, la formazione e anni di studio e lavoro.

Provassimo a tenere un pò di più l’asse sulla questione educativa e  non sulla qualificazione dell’utenza forse troveremmo maggiore stima sociale e minore stigma.

Eppure quel lavoro sporco che s’ha da fare, quel “quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare”, fanno parte dell’educatore professionale, a volte insieme ai dredlock e all’abbigliamento molto “street”.

Perchè la passione educativa induce a trovare, esplorare, imparare, insegnare, scoprire, lottare … dove non si vede quasi nulla. Nel buio e nella fatica dei luoghi, delle strade, della gente.

Questo si che gli educatori potrebbero, forse dovrebbero, insegnarlo agli insegnati troppo appiattiti e addolorati.

Non è l’autostima da conquistare, non il ruolo professionale prestigioso, non è l’infausta Gelmini il nemico da combattere, ma la lotta ostinata va fatta contro le nuove forme di ignoranza, per i pensieri bambini o adolescenti da sedurre fuori dalla tv spazzatura, da stereotipi e saperi banali e ignoranti, che ottundono e chiudono. Va riconquistato il cuore e il piacere, la bellezza di strappare il sipario del banale per la meravigli che nasconde …

Stay human …