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fragilità


ricevo regolarmente una newsletter di una casa editrice che organizza anche convegni, corsi, seminari, laboratori. (area psicologia pedagogia riabilitazione e similia)

quest’oggi l’invito è ad un seminario per insegnanti psicologi educatori pedagogisti e per spiegare loro come occuparsi dei bimbi adottati extracomunitari.
il taglio è psicologico e verte sulla dimensione emozionale e sulla fatica che questi bambini e (immagino) le loro nuove famiglie incontrano.

la riflessione invece va allo sguardo che culturalmente diamo alla fatica delle transizioni, dei cambiamenti.
il filtro è spesso psicologico, ma di quella psicologia residuale, da giornale, da divulgazione spicciola in cui oramai galleggiamo ogni giorno.
la psicologia ha sostituito la sociologia, l’antropologia, l’etnologia, la pedagogia e infine la filosofia – dato già segnalato in un post precedente parlando di come proliferano le riviste a marchio “psy” -.
psicologia “è”  chiave di lettura di quasi ogni fenomeno.
così come oggi ogni esperienza è osservata cme se fosse primariamente soprattutto psicologica.

ma la psicologia nasce storicamente come studio della psiche ma anche e soprattutto come cura.
cura delle esperienze, delle sofferenze, delle ferite e dei traumi.
ma, ogni esperienza fa male, lascia tracce, segni e ferite; quindi seguendo questa onda di pensiero sono “da curare”,  sono malate e sono malattie.

e questo ci rende fragili, deboli, eternamente esposti a dolori da curare, a ferite e traumi, eternamente malati.
avevo letto una statistica che denunciava la crescita esponenziale delle depressioni.
oh! siamo tutti, ma proprio tutti malati.

ma è davvero così?
e … non è pericoloso?

siamo davvero dei vasi di coccio in mezzo a vasi di metallo (manzoni non la metteva giù così, più o meno, quando parlava di don abbondio?).

tra l’altro il rischio è di individualizzare le sofferenze (anche se è chiaro che si cura meglio un solo individuo che tanti) e di non vederle eventualmente come un dato esistenziale, umano collettivo.

si perde l’idea sofferenza come passaggio, transito fatica da uno stadio all’altro delle età, del vivere e delle esperienze.
e quindi come opportunità di crescita: personale, sociale, singolare e plurale, condivisa e condivisibile.

così di ogni cosa che si parla di deve iniziare dalla sua intrinseca psicologia.

per chiudere, recentemente, la maestra della figlia grande (quella delle strane domande) mi ha detto, in un colloquio, che vedeva certe timidezze della bimba ma non voleva dare loro troppo spazio, e quindi non si metteva a enfatizzare la richiesta di aiuto dando credito alla bambina della sua capacità di superare la fese di cambiamento (scuola, maestre, compagni).
avrei potuto infuriarmi per la mancata sensibilità oppure fidarmi della maestra e di mia figlia, che farà fatica ma supererà anche questa prova di crescita.

monica


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siete troppo sensibili?? non leggete il post!

ebbene si!

ho fatto l’educatore professionale con i disabili/minori a rischio/casi sociali e “sfigati” di varie tipologie (e presumibilmente continuerò a farlo)
ma sono una vera carogna…

cioè è quello che dovrei desumere dopo che, per anni e anni,  mi sono sentita dire, esattamente come succede a moltissimi miei colleghi:
“ahhhhh, com’è brava lei! io il suo lavoro non potrei mai farlo … sono troppo sensibile!”

il che mi colloca, nell’immediato, nella categoria insensibili… cioè carogna!
in fondo è per quello che sto ancora studiando! un sacco di euri per diventare consulente carogna.
perchè tanto a me, degli altri, di quelli con cui lavoro frega pochino (non sono così sensibile, visto che riesco a farne un lavoro).
perchè loro, quelli sensibili, la fatica, i problemi, la sofferenza non la trattano mai.
ne si occupano di pupi e pannolini, con il febbrone e la polmonite, o del nonno con l’altzeheimer, o di tutte quelle dannate cose che dolorosamente trattiamo, in quanto viventi.
il presidio de quelle cose, pare essere nostro, di quelli che non sono così sensibili
(???????)
forse, visto che le cose non stanno così, la questione non è di sensibilità ma di sguardo ed oggetto.
così come il medico, partendo dalla sofferenza generata da una malattia, prova a restituire uno stato di salute; chi educa non deve essere pietoso ma trattare un problema per farne comprendere i confini, (comprendendoli a sua volta), attraversarlo con l’altro e impararne qualcosa.
almeno così ha senso.
m