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Vipere e la sindrome di Grimilde

Un non più recente “stato” di una conoscente di facebook sollecitava la questione della inimicizia tra donne, e che renderebbe, quasi in modo atavico, impossibile lavorare insieme, se femmine.

Seguiva una breve serie di commenti, colorati da un medesimo scetticismo, ora alquanto sconsolato, ora decisamente piu’ acido.Insomma tra la mestizia e il veleno … le donne si riconoscono nemiche.

 

Almeno alcune.

C’e’ sempre un doppio registro quando si parla di solidarieta’ femminile:
o le donne sono troppo invidiose, corrosive, gelose, traditrici (attaccano solo alle spalle) e si odiano tra loro;
oppure sono travolte da una ancor piu’ grave “solidarieta’” che, bollata e aggettivata da quel “femminile”, finisce per sembrar solo corporativistica e scorretta, troppo para-femminista.

E sembra ricordarci che … “Suvvia signore allearvi fra voi non e’ neppur bello”.

Tertium non datur.

Ma per eventi della vita sono costretta a sposare e con soddisfazione una terza tesi: da anni lavoro e trovo reti di amicizia con donne/colleghe.
Con le quali mediamente si lavora con maggiore cooperazione, leggerezza, fluidita’, i meriti vengono condivisi, le leadership possono anche subire qualche turn over nel gruppo (se esistono livelli di parita’ di ruolo). Le conoscenze maturate dal gruppo sono/divengono patrimonio del gruppo e possono essere usate in modo indipendente, dentro e fuori dal gruppo.

La esistenza di gruppi di donne vipere l’ho colta, personalmente, in ambiti in cui le leadership era prevalentemente maschile e le donne tenute in una sorta di sudditanza lavorativa, quell’esser vipere che si esprimeva in gruppi particolarmente crudeli e forniti di sottile aggressivita’.
Inoltre in questi ambiti sono stati gli uomini le vere aspidi in seno, traditori e scorretti per un millimetro di fama (non potere in piu’).

Dove, immagino c’è una certa autostima femminile, che sfocia in stima reciproca, le donne riescono a lavorare molto bene insieme, senza farsi corrodere dal pericoloso veleno di Grimilde.

Vale a sfuggiamo agli stereotipi che ci regalano … sono come certe mele avvelenate.

 


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Tane Orchi e Pollicini

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“Sequestri di stato. In Italia sono più di 32.000 i bambini che vengono chiusi nelle comunità o dati in affido a un’altra famiglia. Spesso per cause non del tutto giustificate. Così si moltiplicano le critiche contro assistenti sociali, psicologi e magistrati. Accusati di eccessivo interventismo e di perizie frettolose.

Ma soprattutto di alimentare un vero business. Che per alcuni vale più di un miliardo.”

DISCLAIMER

Ogni tanto balzano agli onori della cronaca notizie di errori giudiziari nei casi di allontanamento dei minori dalle loro famiglie; oppure questa famiglie si rivolgo ai media: giornali e contenitori tv (un trash box spesso) alla ricerca di un sostegno e una giustizia diversa. Detto ciò esistono casi di errori tragici qui, come nella sanità, nella scuola etc. Così come esistono davvero genitori “Orchi” che mai ammetteranno di essere davvero tanto Orchi.

Ma da alcuni media avviene un processo mediatico ai servizi di tutela dei minori; tant’è che viene la classica domanda: “cui prodest”. Devo ammettere che la medesima domanda me la pongo nei periodi in cui l’accanimento mediatico si rivolge alla Mala Sanità, periodi nei quali viene quasi timore di rivolgersi al medico per un banale antibiotico.

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Facciamo che il teorema espresso sia vero, quello che indica nella Giustizia un Orco mangia-bambini, che li divora per rispondere ad una logica economica e non di tutela.

Tenuto conto che dall’allontanamento di un minore non ci guadagnano direttamente i giudici, o gli assistenti sociali, o gli psicologi, che in quanto stipendiati non lavorano a cottimo, vien fuori una domanda facile facile … chi ci guadagna davvero?? E’ davvero un problema di guadagni?

L’Orco numero due è la fretta del giudizio, da parte di Assistenti Sociali e Psicologi, colpevoli di troppo interventismo e superficialità. E’ ovvio e banale, nonchè certo che ci siano casi di eccesso di intervento, esattamente come può essere il caso contrario, casi lasciati a languire in un cassetto per mesi, o per non “sbilanciare” un bilancio comunale, per assenza di tempo, per superficialità di giudizio al contrario (si vede solo la parte positiva e non quella negativa).

L’Orco numero tre è la famiglia lager, e vista come lager dagli operatori preposti alla valutazione. E gli operatori, come è ovvio, si devono assumere un ruolo da kapò. Insomma L’Orco è la polarizzazione spinta, tra bene e male, il che ovviamente presuppone una lotta epica e mai un incontro.

L’Orco numero quattro è la difficoltà reale di comprendere i modelli di una società complessa, di nuovi modelli familiari, di integrazioni malriuscite, di matrimoni che si sbriciolano, e del desiderio comune e collettivo che la Famiglia sia Sola ed Una, ed assomigli dannatamente a quella del “mulino bianco”. E è da Orchi anche il tentativo di tentativo di rendere tutto un pò più “bianco” e un pò più “mulino”.

L’Orco numero cinque è la dimensione del Potere che governa le nostre vite, amico o nemico, a seconda delle contingenze. Potere che ognuno vorrebbe vicino e amico per sentirsi legittimato e vorrebbe lontano quando questo rinnova la richiesta di responsabilità e pagamento di  qualche “dovuto”.

L’Orco numero sei è la valutazione che una società fa  dei propri lati bui, delle marginalizzazioni, delle sub-culture, delle zone d’ombra dei ghetti e dei “luoghi”, infine, che con le marginalità cercano un dialogo.

Infine ci sono i mille e mille Pollicini, i minori, la tutela, le famiglie, le professionalità, il dialogo, il confronto, la fatica di crescere e cambiare, e di concorrere a crescite e cambiamenti, c’è l’intelligenza delle scelte, un mondo/scenario mutevole e via discorrendo. Ossia tutto ciò che è piccolo, o non visto o non detto.

Infine una domanda: l’azione di Additare le Tane degli Orchi è la rivelazione della Nudità del Re? E’ l’atto di seminare le bricioline di pane per favorire la Fuga di Pollicino? Oppure che altro é?


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I luoghi dell’educare e i saperi sociali

Il Punto di osservazione:

Ho lavorato per più di una decina di anni nella cooperazione sociale, e specificatamente nel settore dei servizi educativi rivolti a minori e famiglie in difficoltà. L’ho fatto attraversando i vari ruoli di tipo educativo ma anche di governo: tutti quelli possibili in una piccola cooperativa sociale. Che era ed è,  a tutt’oggi,  una realtà consolidata di cosiddetta “governance” colorata quasi interamente al femminile, un pò per caso, ed un pò anche per scelta e per necessità.

Ne ho tratto due grandi insegnamenti.

Il primo è che, lì, in quello specifico gruppo, in quel preciso momento storico, c’era e c’è gruppo di donne che coordinavano, cooperavano, costruivano servizi educativi, governavano, amministravano, progettavano, pensavano, si ponevano problemi etico/economici. Lo fanno anche ora, ancora, anche oggi, ogni giorno.

La forma assunta dal lavoro era di tipo cooperativo e non competitivo; e per scelta, si voleva essere volitivamente solidali verso i lavoratori soci e non, professionali verso fruitori e committenti, inoltre si voleva affermare una forte propensione a costruire una collettività, che si responsabilizzasse anche attraverso le carriere orizzontali, e sperimentasse un certo turn-over nei luoghi di “potere”.

E il secondo apprendimento  è che quelle donne che eravamo noi, forse anche in virtù dei pochi soldi che circolano nel “sociale”, avevano scelto di non pagare in modo diseguale che aveva anche in ruoli di governo e/o di alto livello gestionale, privilegiando in tal modo un equità economica più collettiva e diffusa.

E’ una esperienza singolare, certo, sia dal punto di vista statistico sia dal punto di vista stesso della cooperazione sociale, per come l’ho incontrata in altre realtà di Cooperative sociali.

Un ultimo insegnamento ne ho tratto, ed è la difficoltà a traghettare fuori dalla Cooperativa, il sapere prodotto in ambito gestonale e quello ancora più pertinente di tipo educativo. Ma questo fa parte di uno dei paradossi dell’educare, la difficoltà a narrare del sapere che sta producendo mentre si educa.

Ecco che, negli anni in cui ero immersa in quella realtà, solo un punto ho sempre sentito come latente e mai sviscerato davvero: il fatto che non si riuscisse a fare un meta pensiero che correlasse politico, collettivo, organizzativo e pedagogico, e anche sociale e culturale con le realtà e le prassi che la Cooperativa andava incontrando, al suo interno e nei servizi educativi che presidiava.

E’ un punto latente in molti servizi educativi. Il sapere che viene prodotto resta un patrimonio congelato nell’esperienza dei singoli e/o al massimo si tesaurizza nella vita nei fruitori dei servizi, minori, donne, famiglie, disabili, etc.

Eppure è nei servizi sociali, nelle comunità alloggio, nei centri giovani, nei consultori, nelle scuole, negli asili, insomma nella pluralità di servizi erogati per le persone che le esperienze entrano in un meltin’pot che le fa uscire mutate.

E’ lì che si incontrano le nuova famiglie ricostituite, multietniche, le seconde generazioni e a volte le terze dell’immigrazione vecchia e nuova , il disagio di una società in mutazione, mutevole e di corsa, gli anziani, la fucina del carcere, e tutti i vari scivolamenti della vita nei tracolli di alcool, droghe, follia.

Ci disabili ora diventati diversamente abili nelle loro istanze non viste, le donne, le giovani donne che portano le storie ambivalenti di violenza tra desideri amore e possesso  e tutti si incontrano con i professionisti dell’educare, nel tentativo di del trasformare in sapere il disagio.

In quella pentola ribollente c’è l’incontro con le istanze più normative dello stato, quello stato che impone di imparare dal contenimento forzoso dove si impara dai muri e dalle sbarre, dalla punizione, oppure dalle regole del sapere; italiano, matematica, storia, etc, ci sono i modelli culturali egemoni e quelli residuali, quelli regionali e quelli di altre culture.

Eppure sono quei i luoghi dell’educare che ancora non riescono a narrare i processi trasformazione in atto e che vedono, quando stanno con i giovani mentre questi cominciano leggere la società, ad iniziare ad esserne parte, a volerne determinarne alcune parti. Anche quando sono la parte latente e/o dimenticata.

Ma sono luoghi silenti, inascoltati su queste istanze e che non hanno ancora colto la possibilità di narrare queste transazioni sociali nel loro divenire, impegnate come sono a sopravvivere ai vari tagli che i governi impongono legislatura dopo legislatura.

Sembra paradossale che siano proprio le realtà minoritarie, meno ascoltate nella flebilità delle loro voci: bambini, anziani, donne o ancora quelle parti indisponibili nel loro apparire perchè scarti di una società che non ascolta, ad essere proprio la maggiore fucina di cambiamenti, laddove si trova a ricomporre differenze abissali e culturali, interne ed esterne, istanze nazionali e/o globalizzate.

E’ paradossale. o forse no, che siano i luoghi dell’educare spicciolo, concreto, reale a doversi fare narratori di ciò che accade e può accadere e sta accadendo.

Infine tornando a chiudere proprio con la questione femminile, vorrei tornare con il pensiero lì, in quei luoghi del sapere operativo, dove l’educazione si produce artigianalmente; fuori dalle aule colte, dalle teorizzazioni, dai paradigmi, dalle stanze ordinate e pulite, dal bel “parlare”, dalle rivoluzioni e dalle rivendicazioni politiche forbite. Vorrei che si andasse dove le donne imparano e insegnano l’emancipazione, in situazioni grevi e gravide, dove se la scambiano, se la contendono, la insegnano e la imparano e poi magari la costruiscono, per farci davvero narrare cosa succede e cosa ci stanno insegnando.

E vorrei chieder a chi questo lavoro fa, di giorno in giorno, l’assunzione di una responsabilità educativa che è narrare quell’attraversamento e il sapere così generato. (Siano essi educatori, insegnanti, formatori, consulenti).