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disambiguare: lavoro ossia #coglioneNO e #visibilità

Se il fenomeno non esplodesse come la solita bolla web, per cui si gonfia, gonfi, gonfia si espande, scoppia e muore! Lo s-nodo interessante ci sarebbe, intanto vedetevi questo ma poi leggetevi  anche quest’altro.

E allora ho pensato a tutti i lavori invisibili, sottostimati e sottopagati, perché non sono cool, web, fashion.

Come scrive Blogger Creativa esiste un problema di visibilità, che riguarda davvero troppe persone e troppe storie, paradosso di una rete che mostra tanto, nascondendo altrettanto. Ma va bene così, visto che imparare a stare in rete, lascia aperta  (virtualmente a tutti) la possibilità di mostrare quello che sta oltre.

A me sta a cuore precisamente questa dimensione, visto che anche il mio soffre, come tanti altri lavori di un problema di visibilità, di narrazione, di restituzione di un valore sociale, culturale, economico. In tema leggete un post di Christian Sarno, che spiega molto bene il concetto di gratuità nel nostro ambito di lavoro.

Forse il meglio di una società (o il suo miglioramento) si crea quando si rende visibile il lavoro costante dei tanti, ogni giorno volti a sostenere quella società, quando si rende evidente che il lavoro va sostenuto e valorizzato, in ogni sua forma e dimensione, E retribuito con appropriatezza.

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Poi non importa se i lavori non risulteranno cool, creativi, belli, giovani, e simpatici, l’importante sarà aver restituito il valore.

Soprattutto #visibili un buon hashtag per tutti quelli che fanno lavori invisibili….


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Scarti, rifiuti, astio e web

Anche se non se può fare una generalizzazione, o almeno a me mancano i dato statistici, per confermare o meno questa sensazione/osservazione/considerazione, sembra che alcuni spazi web siano considerati alla stregua di alcuni luoghi pubblici, (es. bagni), luoghi destinati a raccogliere le proprie deiezioni, e … incurie (ossia come si lascia quel luogo dopo esserci passati e avere depositato i propri scarti).

Anche i luoghi web (persino i più impensabili) subiscono sorti simili:
I commenti agli articoli di giornale, o ai post sui blog delle testate giornalistiche, alcuni post su facebook, o un veloce commento su twitter, raccontano spesso di una acredine, astio e rancore verso alcuni contenuti, nemmeno troppo “sensibili”  …che so una pala eolica che potrebbe venire installata in giardino.
Utenti che commentano cinicamente e rabbiosamente, quasi urlando rabbia e frustrazione, verso oggetti o pensieri altrui, come se fossero la genesi di chissà quale piaga dell’umanita’.
Una pala eolica?
Una pala eolica merita litri e litri di astio!??

Un astio firmato, se i contenuti sono su facebook, astio anonimo se ci troviamo in una pagina web, di un giornale on line!
Sembra non interessare a nessuno di essere tracciati nella propria acrimonia, ed e’ come se si firmasse, e si torniamo alla “simpatica” metafora del bagno pubblico, dopo aver fatto pipì per terra o aver lordato il wc, “sono stat* io!! E mi chiamo Rossi Mari*”.
Insomma l’esser pubblici, ma su web, non genera il pensiero di essere davvero pubblici, non fa venire il dubbio che si e’ tracciabili, e che “scripta manent”, nemmeno la cultura e l’eta’ adulta permette di cogliere questa evidenza fenomenologia del web, da un lato. E nemmeno mette in discussione il fatto che in pubblico si evitano di esplicitare i propri pensieri neri o peggiori istinti, o la rabbia sconfinata, che nelle nostre giornate invece sappiamo benissimo confinare.
Sappiamo per educazione e maturazione, che la parte selvaggia di noi, va giocata nei canali evoluti/evolutivi e non vomitata addosso all’umanità altrui, giusto per evitare di chiarire le dispute con la clava.
Il fraintendimento sembra essere basato su un erroneo convincimento di avere un anonimato sostanziale possibile nel web, di esistere una virtualità che non ha forma, corpo, confini, logiche, etiche, responsabilità.

Vi sono poi contesti, piùristretti, (penso ad alcuni gruppi Facebook che frequento – anche come amministratrice – o blog che seguo) dove la presenza di un filtro selettivo, tematico, la gestione degli amministratori che riportano le discussioni nel proprio alveo, la protezione creata per evitare la presenza di troll o fake, permette alle persone di controbattersi, avere idee diverse ma senza finire per prodursi in esternazioni astiose e di fondo violente. Insomma strutture che hanno una forma, una etica, una responsabilità, una “consistenza” diversa ….  


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Autorappresentazione delle madri

All’apertura del mio primo blog ero nella fase della II maternità (assai diversa dalla prima) e l’idea si avere un blog da mamma mi esaltava tanto.
Era la novità del momento, per me e per il web italiano.
Poi di mio ho provato a rideclinare il blog in una forma meno radicalizzata, colorandolo e meticciandolo con altre tematiche.

Ma la possibilità delle donne/madri di fare una propria narrazione (pubblica) di questa esperienza aveva un valore importante, quello di offrire un sapere dal basso, complementare a quello di tecnici ed esperti.

Poi certo ci sono derive ed assolutismi.

Una di queste è la maternità’ assunta (come narrazione sul proprio blog o pagina facebook o altro socialnetwork) ad unico paradigma dell’esistente. Ecco che foto e parole mostrano madri che sanno tutto loro, senza sbavature; mentre introducono paradigmi teorici su una maternità autoreferenziale, necessitante solo di se stessa per capire e rispondere ad ogni domanda della vita.
E che si basa su due o tre nozioni lette (e piaciute) per sentirsi super competenti … senza dubbi e umilta’.

Appare quindi una maternità autarchica, che non accetta gli altri, scuole o maestri, frustrazioni, dubbi, o inquietudini che sempre vengono offerte dagli sguardi altrui. Una realta’ che si racconta ma non interagisce, che si autoassolve e si auto-giustifica.

Il detto africano che recita che per crescere un bambino occorre un villaggio, porta lontano, porta i figli lontano, li rende “pubblici”, e capaci di imparare da molti altri (persone, storie, emozioni, incontri, abitudini).
Quali figli vogliamo crescere? Quelli della madre che ha bisogno di credere di “saper” tutto, o quelli del villaggio?

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