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casalinghità, un lavoro del cavolo ….

E’ vero.
non mi ci abituo, e magari nemmeno faccio troppi sforzi …
diciamo che non ho nemmeno troppa voglia di sforzarmici.
la casalinghità mi espone ad un non ruolo sociale, sofferto e silenzioso.
privo di quella ricchezza che permette il lavoro, mi sento scacciata in un ruolo svuotato la complessità espressiva e creativa che comporta risolvere o affrontare un problema, e forse soprattutto svilito dalla inutilità di comunicare attorno al suo oggetto.
a nessuno della mia famiglia (com’è ovvio, nemmeno a me interesserebbe) fotte nulla se ho lavato i vetri o i pavimenti, o tantomento interessa discutere sulla tipologia di detergente sarebbe più proficuo usare, o sulla profumazione più gradevole.

la comunicazione è parte delle mie necessità esistenziali, così pure la ricchezza riflessiva sull’oggetto attorno al quale si ronza (lavoro educativo, nello specifico), per non dimenticare il gusto della problematicità che obbiga a trovare nuove strategie per fare ed imparare, ed infine la possibilità di costruire insieme agli altri, cooperare, riflettere, scambiare etc etc etc
come a dire che l’avere un cesso luminosissimo, scintillante, pulitissimo, non mi pare così interessante, e per quanto mi risulti essere una personalissima necessità igienica ed olfattiva fondamentale, umanamente mi indispone.
non ci trovo gusto.
forse la casalinghità richiede qualche abilità che non è contenuta nel mio dna, esige una competenza zen nel fare cose bene, rilassate, per sè, senza attender un ritorno su un piano più esteso, è un fare che non abbisogna riconoscimento.
magari bisogna essere in pace con se stesse, e saper stare in un luogo circoscritto.
non so e non capisco.
davvero



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lezioni di donne: tre donne intorno al cor mi son venute – Parte prima.

L’oracola mia personale, graz e marilde e mi hanno stimolato un mega, maxi, iper post; che devo suddividere per sopravvivergli, vedremo come l’opera andrà a compimento.

Da marilde prendo lo spunto da questo

Da graz per lo spunto enorme sulla taranta

E l’oracola per essere la donna che è, dopo la sua visita so che potrei scriver altri tre/quattro blog, perchè ha una capacità di aprir(mi)e finestre che guardano infiniti ed incredibili mondi.
Certo poi non farei altro …. :-). vedremo che spunti mi evocherà.

Sui padri.
Parto dalla riflessione che i padri, che “si, è vero” servono, sono necessari (di quella necessità ineluttabile di hillmaniana memoria, di quella dell’ananke greca), ma forse sono “solo” il terzo necessario a rompere le cosiddette “simbiosi”, la dualità di ogni coppia, terzità senza la quale non si cresce, il catalizzatore di una crescita di ogni relazione. Così coma la madre può esserlo di ogni dualità padre e figlio, ora che sempre meno uomini derubricano la regola di non occuparsi dei propri figli.

 Mi domando: “ma come devono essere questi padri?”
 
Sono davvero loro “quelli” che aiutano le mamme a non esser troppo avvolgenti, troppo materne, totali e femminili, inglobanti ed uterine?
Oppure rappresentano solo una icona, un modello di padre psicologico, che anni ed anni di psicoanalisi divulgativa ci hanno mostrato?
Di mio vorrei continuare a pensare che le culture mutiano e cambino, visto che ci sono stati momenti storici in cui le donne hanno cresciuto i figli in assenza degli uomini (guerre, crociate, pestilenze), insieme ad altri momenti in cui li hanno cresciuti in presenza/assenza di padri dominanti e dominatori; evocati solo per giudicare e somministrare il terribile castigo, mirato a rigovernare figlio disubbidiente.  Oggi è l’epoca in cui la paternità cerca nuove chiavi di lettura e di azione (come la metteremo, se no,  con le coppie di genitori omosessuali, e con il grande  numero di madri separate e single??? o con i nuovi padri affidatari?). 

Insomma ha davvero senso questa sorta di deux ex machina di una maternità disarmante e non regolatrice, destinata a normare questa incapacità di auto-contenimento femminile.

Come se stessimo ancora a chiederci se le donne hanno l’anima.

L’altro, il terzo, il diverso da me, l’alterità è sempre regolatrice, come lo è il confronto, alle volte persino il dissidio, che crea una divergenza, un allontanamento, un presa di distanza di una certa posizione, un disequilibrio per poi trovarne uno nuovo, relativo alla posizione dell’altro.
 
mi scuso, ma anni di letture e studio psicologicamente orientati mi fanno pensare che sia ora per la materia di metter i remi in barca, 
e ricominciare ad occuparsi del suo specifico professionale (la cura delle vere malattie della mente), per liberare la via educativa da ingombranti pregiudizi e stereotipi, e in ciò restituendo la via della vita alle suggestioni pedagogiche e filosofiche. a mio modo di vedere entrambe significano prassi e teorie del vivere…


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maternità e il tiro con l’arco


2 maternità.
2 figlie.
10 anni di distanza.
due età: 34/44
due diversi compagni.
due esperienze ugualmente coinvolgenti ma collocate su due piani diversi. molto.

la prima alla luce della “gloria/gioia” della maternità, della luce di scoprire una ennesima e nuova potenzialità come persona, come donna, come madre.
grande esposizione della pancia e della pargola.
la prima della nuova generazione in famiglia.
tanta attenzione attorno a me. a noi.
è veramente la volta in cui si comprende il senso della potenzialità generativa che da luogo ad una forza nuova.
grande seguito di esperienze seguite a questa scoperta.
nella vita personale, nel lavoro, nello studio.
una potenzialità di creatività, di realizzazione/riuscita personale, di crescita, di forza espressiva mai nei conosciuta negli anni precedenti.
nella vita precedente.
la costruzione di un nuovo senso di se e di possibilità di agire.
ma tutto appunto in modo esposto, solare, entusiasta, allegro, forte perchè l’aver generato una figlia era ed è una condizione di estrema creatività e quindi di azione e di esistenza al mondo.
infine circostanze esterne e contesto umano hanno messo tanta luce su questa scena.

la seconda maternità è stata, ed è più lunare, crepuscolare. molto più intima e privata. connotata da un grande pudore nel mostrare e nel mostrarsi.
sicuramente alcune condizioni esterne l’hanno resa tale in modo più pregnante.
la minor voglia di mostrare non è legata ad una minor voglia di agire e di essere.
è solo più liquida e sotteranea.
manca quella voglia di realizzarMi, collocandola all’esterno. colpendo i bersagli che stanno fuori (realizzazione personale, professionale).

faccio una digressione e lancio un ponte, come ovvio impervio e tibetano:
mi pare sia anche una questione anagrafica.
a trentanni, i miei trentanni e quelli delle persone che mi sono state intorno nella vita personale e professionale (dato il contesto lavorativo ci sono state molte connessioni tra professione e amicizia) c’era molta più voglia di possedere la vita, di aggredirla ed impossessarsene. di abbattere gli ostacoli con una sorta di necessaria arroganza.
che rivedo oggi nelle trentenni.
che ci è sembrato di rivedere al lavoro – dopo dieci anni – quando con le colleghe storiche ci sembrava che l’arrembaggio delle cose (anzi quel tipo di arrembaggio) non ci appartenesse più e/o forse le cose ormai le maneggiavamo di più.  e ci ha stupito la sensazione relativa a come le nuove arrivate “sgomitassero” per avere qualcosa – che noi stesse stavamo già cercando di offrire loro  – … loro come noi dieci anni prima.

specchi? transiti generazionali?

allora oggi collegando il mio sentire sulla nuova maternità, la dimensione anagrafica e questa osservazione, posso dire che qualcosa è diverso.
come diceva herrigel (e lo cito malamente, lo so e me ne dispiaccio) ne “lo zen e il tiro con l’arco” … il bersaglio non è fuori, quasi non esiste. ma colpiremo il bersaglio se riusciremo ad essere noi stessi, bersaglio e braccio che tende l’arco e freccia.

e per me oggi, in questo momento, mentre sto digitando, la maternità è dentro. è la piccola che è nata, è la grande che si muove ormai di più nel mondo, è ogni momento, è realizzare ciò che sono: essendo bersaglio e freccia.
oggi ed ora, c’è una ricerca meno affannosa peri trovare me stessa in ciò che faccio e realizzo fuori (al di fuori)
peraltro le cose “succedono” anche senza un mio sforzo così spasmodico.
ma ci sono dentro, comunque, e calata profondamente.