INTRO
Dopo un anno di latitanza del blog, credo che questo spazio abbia oramai assolto la sua funzione narrativa, per cui forse varrà la pena di non rinnovarne l’estensione (a dire il vero abbastanza bislacca .org) che lo contrattistingueva come mio. Scriverò ancora? Non so. Ma sono grata a questo luogo e sento la necessità di salutarlo, raccontando la storia che ha provato a narrare.
Il blog nasce circa nel 2007, grazie al tempo del “non lavoro” regalatomi dall’attesa della figlia piccola, la quale si avvia a compiere, proprio in questi giorni, il suo ottavo compleanno. Ha attraversato le fasi in cui mi sono narrata in rete, e ho imparato a conoscere il circuito del mommyblogging italiano di quegli anni. Quello di tutte quelle donne che hanno affrontato la maternità come evento essenziale e al tempo stesso come non fondativo di se stesse, in quanto donne. Anche verso loro nutro un debito di gratitudine e di stima, per quelle che ho conosciuto dentro e fuori dalla rete.
Insomma un blog che ho pensato – o almeno ho provato a pensare talvolta quasi quotidianamente, per cogliere narrando, una visione femminile – la mia – dell’essere persona, donna, madre, e professionista; l’ho fatto attraversando e imparando a rinominare i temi del femminismo, dell’ambiente e della pratica professionale. L”ultima è confluita poi in altri blog e in vere e proprie storie di lavoro.
Il blog è stato un luogo dove sostare per imparare ciò che è social nella rete, come si scrive (o ci si prova) in modo pubblico, dei propri affari privati, e di come possa essere educativo per se e per gli altri avere storie da ascoltare; come tali le ho scritte o le ho lette.
Infrangendo, talvolta, quel muro di solitudine e di silenzio che la vita ci regala.
Ieri con la figlia mini abbiamo guardato circa 20 anni di fotografie, su carta. Perché gli altri migliaia e migliaia di immagini sono raccolte negli hard disk e nelle memorie dei computer di casa (quella di suo padre e quella mia). Le sue immagini mancavano perché tantissime delle sue foto sono solo digitali, se non qualcuna di quelle in cui lei c’è, nel mio pancione di donna gravida, o è ancora un viso tondo come quello di una pallina di 6 mesi, o un angioletto riccioluto a tre anni.
Così ha brontolato un poco, ma alla fine si è goduta le immagini di sua sorella grande, ormai alla soglia dell’ottenere la patente, ormai maggiorenne anche a quest’effetto, quando era piccolina, e buffa e tenera.
In quelle foto ho ritrovato la donna che sono stata. E quella che ora finisce di raccontare una storia su un blog.

Questi due anni che il blog ha visto scendere il numero dei post scritti, e il mio allontanarmi progressivo dalla scrittura privata, per aumentare la dimensione professionale, o focalizzarla alla sua possibilità interazionale su Facebook (eletto a social preferenziale perché più comodo e perché li ci sono tutti).
Il lavoro si è risucchiato tanto del mio tempo per pensare e scrivere, e il resto lo ha fatto la vita.
Lo stesso hanno fatto morti improvvise e tragiche di persone della mia famiglia allargata e fluida, lo hanno fatto i lavori cambiati, e le separazioni (fra cui, quella decisamente faticosa e traumatica dal padre della mini), e alcuni eventi tanto imprevedibili da rendere la “solita vita” irriconoscibile, in cui sentirmi perduta. Sono accadute le solite cose che accadono nella vita di tanti (amori che cambiano, lutti, separazioni, cambiamenti di casa e lavori, fatiche e novità) e che assumono un sapore prospettico più significativo se collocate in un arco di vita di 50 anni. Ovviamente in questo piano inclinato della vita che vede scivolare via il conosciuto, scortecciare l’anima, lasciandola esposta. Perciò si va in analisi, per trovare una strada laddove si è entrate nel solito tunnel che sembra infinito. Lo dicono tutti, della percezione che certi tunnel esistenziali siano infiniti. E fuori dal tunnel la vita assume un gusto leggermente diverso, che sa di fragilità e imprevisti, di aria e vento, fuoco e terra, e di possibilità che vanno colte solo se valgono. Senza ostinarsi in direzioni che ci spostano lontano da noi.
Alla fine restano, tolto tutto, poche cose essenziali: la solidità economica del lavoro, le figlie che ami, alcuni amici nuovi che hanno accompagnato con lo sguardo e le parole l’attraversamento delle tempeste; la rete familiare allargata che ha dato prova del suo significato reale; un tot di ore di psicologa per riuscire a stare nei nodi, accogliendone la possibilità.
Ad alcuni nodi non si sfugge, ma si impara a stare scomodi tra i grovigli, volendosi comunque bene. Si impara a volersi bene. Lo si costruisce. Abbandonando tutte quelle parti (o persone) che invece ci ritrascinano nel tunnel, persone che non accolgono chi sei.
Resta la famiglia allargata o non tradizionale, fatta di molti e di rapporti nuovi, poiché come si dice, per allevare i figli ci voglia un villaggio, due genitori non bastano, e comunque il matrimonio non è garante di un buon allevamento dei figli. A volte si educa meglio sapendosi alleare, da separati, per restare genitori e sodali che imparano a stimarsi – apprezzarsi – fidarsi (con il padre della figlia grande è stato possibile- lo confermano quei 18 anni di buona genitorialità e co-responsabilità). A volte ci si educa anche da adulti.
Resta la rete umana delle “cose da fare”, e dove incontrare persone che si prendono cura della crescita delle figlie (scuole e attività sportive, teatro, etc etc).
Alla fine resti tu, e ti fermi a guardare.
Le loro foto e poi stranita le foto, le tue.
O meglio resto io.
Quella nelle foto, e mi stupisco, perché oggi vedo una bella donna. Bella per quello è che possibile (un po’ di relatività autoironica e disincantata su se stesse ci vuole sempre), una donna che – per una volta nella vita – vedo bella, costantemente nel tempo.
Ma sono io? Ero davvero io, quella? Quanto tempo ho perso a sentirmi tanto diversa e improbabile, discontinuamente in pace con se stessa, a volte decisamente in guerra con la forma, il peso, le leggerezze e le pesantezze?
Perché oggi in quella donna vedo della bellezza continua negli anni, soddisfatta dei miei 52, dei contorni del corpo, di qualche ruga, dei capelli bianchi che rivendicano territorio, di due gravidanze e di qualche cicatrice, di ciò che sta dentro e sta fuori, di quelle volte che tutte le parti sono riunite, di quando guardo e fotografo il mondo con gli occhi che sorridono. Quasi in pace con chi sono, con la forma del corpo, con le risposte muscolari, con la leggerezza che a volte torna e dialoga pacifica con i cambiamenti, con le legittime paure che mi svegliano talvolta la notte, con lo stress del lavoro, con gli amori finiti e con quelli falliti; che mi proietta in un futuro ancora tutto da inventare perché “cosa farò da grande” è la domanda che non mi abbandona mai.
Genererò altre possibilità di lavoro con persone che mi piacciono e stimo, immaginerò e nutrirò sogni, lascerò posto per amare di nuovo (e farmi amare), a partire da quella sensazione di bellezza che nasce da un corpo che si sente finito e pacificato nella a sua complessa interezza, ambivalente e mutevole, eppure e sempre unitario. Capace, bello, intero, complesso, in divenire.
“Memorie del corpo. Ci sono persone che sembrano averti inciso nel corpo certi schemi di azione, ricordi e movimenti, da cui è difficoltoso sganciarsi. Ma il corpo continua ad imparare e a tornare a se stesso, ai propri ritmi, movimenti e possibilità di azione e ritrovarsi.”

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